Silenzi di Stato
Ci sono voluti oltre dieci mesi. Più di quaranta lunghe e strane settimane, di questo periodo così difficile per tutti e non ancora alle spalle. Periodo nel quale, volendo, tutti avrebbero potuto provare a immaginare cosa dev’essere vivere settimane, mesi, anni e addirittura decenni in un lockdown totale e permanente, in spazi angusti e ostili, senza socialità, né svago o diversivi, persino privati della possibilità di vedere i propri cari, costantemente sottoposti a frustrazione e impotenza, talvolta a rabbia e violenza.
Certo, è difficile immedesimarsi, anche perché occorrerebbe prima separarsi dai propri pregiudizi, dalla facile scappatoia morale: «se la sono cercata». Se però ci si riuscisse, si guarderebbe forse con altri occhi al mondo del carcere e anche alle proteste che nel marzo scorso hanno scosso le prigioni, devastandone in particolare una, quella di Modena, e lasciando un perdurante strascico di conseguenze, sofferenze, inchieste, condanne: il 18 gennaio sono cominciate a Milano le udienze nel procedimento che vede imputati 22 detenuti accusati di resistenza, lesioni e incendio che in quei giorni si trovavano nel carcere di Opera.
Nessun processo è stato – per il momento – invece istruito e definito per la vicenda più grave di quei giorni: la morte di ben 13 persone recluse. Più grave pensiamo e diciamo noi, ma non pochi, diversamente, sembrano considerare tale la distruzione di arredi e cancelli.
Cosa c’è stato dietro le rivolte
Si è trattato di una vera e propria strage, subito attribuita «perlopiù» all’abuso di metadone e psicofarmaci e immediatamente rimossa dall’attenzione pubblica. Anche in quel caso molti avranno pensato: «se la sono cercata». Alcuni, per la verità, lo hanno pure detto o scritto. Nessuno si è soffermato a riflettere su cosa stia a indicare il fatto che nelle rivolte di quaranta o cinquanta anni fa gli insorti cercavano di arrivare all’armeria o al muro di cinta delle prigioni, mentre in questo caso l’assalto è stato dato alle infermerie, come ha osservato il solo Franco Corleone.
Innescata dalla paura del contagio, nella penuria di informazione, e dall’ansia per i parenti all’esterno, con i colloqui sospesi senza troppe spiegazioni, la preoccupazione nelle celle si è tradotta in rivolta. Tesa non tanto a fuggire, come pure è avvenuto a Foggia, quanto, appunto, a ricercare calmanti chimici per lenire o stordire quell’unica dimensione in cui sono costretti a vivere i reclusi: la sofferenza e la disperazione. Senza più sbocchi e illusioni, dopo l’ultima beffa dell’annoso lavoro degli Stati generali sull’esecuzione penitenziaria, e delle proposte riformatrici scaturitene, buttati nella spazzatura dalla pavidità dei governanti di allora.
Così la strage del marzo 2020 è stata rapidamente archiviata, con le tante ombre, le contraddizioni, le omissioni, le lacunose e risibili versioni ufficiali.
Il muro di gomma e i segreti di Stato
Ora, dieci mesi dopo, pare aprirsi qualche piccola crepa in quel muro di gomma e di indifferenza. Media importanti come il quotidiano “la Repubblica” e la trasmissione “Report” della RAI e, prima di loro, il quotidiano “Domani” e prima ancora l’agenzia AGI, hanno finalmente dedicato inchieste e commenti agli avvenimenti di marzo. Per contribuire a determinare questa novità c’è voluta la determinazione e la costanza di singole persone aggregatesi in un “Comitato per la verità e la giustizia sulle morti in carcere” e di quanti hanno continuato a porre domande scomode e a sollecitare risposte, a cercare testimonianze, a raccogliere informazioni: blog e siti web indipendenti, giornalisti free lance, gruppi locali di attivisti, alcuni piccoli giornali, qualche avvocato. Sono stati loro, siamo stati noi, a tenere aperta e a sollecitare la possibilità che si rompesse almeno un anello della catena di silenzi, omertà, inadempienze, prudenze.
Quel che più colpisce di questi tragici avvenimenti, tutto sommato, non è tanto la rocciosa indisponibilità delle istituzioni e dello Stato, delle forze politiche e del governo di ricostruire l’accaduto (va sottolineato, visto che si finge di nulla: di inedita gravità nella storia delle carceri repubblicane, se non altro nella numerosità delle vittime), di attribuire – e di assumersi – le responsabilità, di chiamare a rispondere. Insomma, di fare chiarezza e promuovere giustizia.
La storia di questo paese è, difatti, densa di segreti di Stato e di armadi della vergogna. L’impunità è una costante nella storia delle classi dominanti. L’omertà è un collante bipartisan che garantisce la stabilità e la continuità del sistema e dei suoi apparati, specie di quelli repressivi. Nulla di nuovo, dunque e purtroppo, pur se in altre epoche storiche, anche non troppo distanti temporalmente, erano stati sicuramente maggiori i contrappesi e le resistenze: in parlamento, nella società, nei media, nelle professioni, nelle associazioni. Sia pure in aree minoritarie e circoscritte, è sempre esistita la capacità, civile e democratica, di chiedere conto e qualche sporadica volta persino di ottenerlo.
Le prudenze, i silenzi e le omissioni
In questa vicenda, invece, spicca la debolezza, l’assenza o l’eccesso di prudenza proprio di quelle aree e di quei soggetti, consuetamente pronti a impegnarsi in battaglie di garanzia, trasparenza e diritto.
Le interrogazioni parlamentari si contano sulle dita di una mano, rimaste senza risposta; alla prima, dell’on. Magi, è stato dato un riscontro puramente formale, evasivo nel merito e totalmente insoddisfacente nei contenuti.
Mentre il disagio nelle carceri – anche a causa del suo nascondimento – cresceva e, così pure, la violenza illegittima (ma andrebbe definita tortura) contro i reclusi. Nulla è stato fatto per prevenirli. Anzi, l’accantonamento dei fatti di marzo non poteva che essere inteso come un “via libera” da chi pensa che le carceri si governino con la forza e l’arbitrarietà. A denunciarlo, nel merito e con forza, il Garante regionale della Campania, Samuele Ciambriello e di quello di Napoli, Pietro Ioia, che per questo hanno subito attacchi da parte di sindacati di polizia penitenziaria. In specifico, la loro iniziativa – coerentemente con il proprio mandato, funzioni e doveri – ha insistito sul pestaggio di massa, le torture e le spedizioni punitive avvenute a danno dei detenuti di Santa Maria Capua Vetere, dopo che questi avevano fatto una pacifica protesta all’inizio dello scorso aprile. “La mattanza della Settimana Santa” l’ha definita la locale procura, che ha infine messo sotto accusa ben 144 agenti della polizia penitenziaria: per una volta, i professionisti della minimizzazione avranno qualche difficoltà a parlare di singole “mele marce”. Un episodio che, per dinamica ed estensione, ricorda il massacro di San Sebastiano, avvenuto a Sassari dell’aprile 2000, con decine di detenuti percossi a sangue per interi giorni.
Tornando ai morti di marzo, colpisce e stupisce invece non siano note analoghe iniziative da parte di Garanti territorialmente competenti rispetto alle carceri dove vi sono state le rivolte e i decessi. A partire dalla richiesta ed esame della documentazione sui controlli medici, in partenza e in arrivo, sui detenuti trasferiti da Modena e dagli altri istituti penitenziari. Un aspetto centrale e determinante, di cui si è tornati a parlare solo grazie all’esposto di cinque detenuti, che ha riaperto il discorso e costretto i magistrati a riprendere le attività di inchiesta. La loro denuncia, tra le tante cose, mette in evidenza, nero su bianco, quel che era già chiaro a chiunque volesse vedere e capire: l’omissione o la superficialità – sempre non vi sia stata addirittura falsificazione nelle certificazioni – negli accertamenti sanitari, obbligatori per legge.
Il coraggio della denuncia
È significativo, e anche triste, che ora la riapertura dell’attenzione dei media e dei magistrati sulla strage di dieci mesi fa sia avvenuta solo grazie all’anello più debole ed esposto: i reclusi stessi. Già vittime di violenza, facilmente minacciabili, ricattabili e soggetti a pressioni, dirette e indirette. Come quella di riportarli inizialmente nello stesso carcere di Modena in cui hanno denunciato di aver subito pestaggi, loro e i loro compagni, compresi quelli poi deceduti.
Tace e continua a tacere il ministero e il governo nel suo insieme. Assente il controllo parlamentare. La cappa del silenzio, evidentemente, ha funzionato in un gioco di specchi e di reciprocità negative: la rinuncia a indagare da parte dei media ha indotto e consentito alla politica e alle istituzioni di tacere e di voltarsi da un’altra parte.
Le forze, associazioni, singole e autorevoli personalità impegnate sui diritti umani e sul carcere hanno concentrato l’impegno sul promuovere misure deflattive anti-Covid e sulla garanzia di priorità delle vaccinazioni anche per i detenuti.
In tutto ciò, la strage di marzo e la denuncia sull’occultamento della verità non hanno trovato spazio e gambe organizzate. Sicuramente ha pesato la subitanea – e priva di riscontri – versione di potenti e ascoltati procuratori antimafia, propagandata e amplificata da tutti i media, che attribuiva la regia delle rivolte alla criminalità organizzata e che è arrivata a costringere alle dimissioni l’allora capo dell’Amministrazione Penitenziaria Francesco Basentini. Una campagna politico-mediatica che ha contribuito al silenzio e alla rimozione della vera e tragica notizia di quei giorni, vale a dire l’eccidio di detenuti, e alle prudenze al riguardo.
Questo è il quadro, dieci mesi dopo. I pochi spiragli aperti dal coraggio dei detenuti che hanno mandato ai magistrati l’esposto e dal soprassalto di attenzione di alcuni media, naturalmente, rischiano presto di chiudersi se non si metterà in moto una più vasta capacità di pressione politica, di denuncia, di informazione e di mobilitazione.
Si avvicina l’anniversario della strage. È una buona – forse l’ultima – occasione per allargare le poche crepe aperte e provare a fare finalmente crollare il muro della vergogna. Per ottenere quella verità e giustizia indispensabili a confermare una fiducia nella democrazia e nello Stato di diritto che è stata pericolosamente indebolita.
A questo stiamo lavorando.
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