Arabia saudita. La lunga strada per la libertà di Loujain, in carcere da mille giorni

by Michele Giorgio * | 10 Febbraio 2021 10:51

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Non è facile valutare quanto il rilascio dell’attivista saudita dei diritti delle donne Loujain al Hathloul, atteso per domani, in anticipo di qualche settimana sui tempi annunciati, dopo 1.002 giorni di carcere duro, sia legato a pressioni statunitensi. «Gli Usa si aspettano che l’Arabia saudita rilasci i prigionieri politici e migliori la situazione sui diritti umani», aveva detto qualche giorno fa la portavoce della Casa Bianca, Jen Psaki. Fatto sta che la sorella dell’attivista, Alia al Hathloul, ha scritto in alcuni tweet in arabo che la scarcerazione è imminente ma che Loujain sarà in libertà vigilata e non potrà viaggiare all’estero in attesa processo di appello. Se domani le porte della prigione si apriranno, per Loujain avrà fine il calvario cominciato all’inizio dell’estate del 2018. L’attivista in questi due anni e mezzo ha denunciato sevizie, torture e persino violenze sessuali da parte dei carcerieri senza che ciò abbia spinto i giudici a ordinare indagini.

Il ritorno a casa non si accompagnerà alla libertà di parola e di espressione, gravemente limitata in Arabia saudita. Loujain vivrà in libertà vigilata e rischierà di tornare subito in prigione se aprirà bocca per raccontare la sua vicenda o per condannare crimini contro i diritti umani. Lo scorso dicembre un tribunale speciale per l’antiterrorismo l’ha condannata a cinque anni e otto mesi di prigione per sovversione, attacco alla monarchia, perseguimento di un’agenda straniera e l’utilizzo di Internet allo scopo di turbare l’ordine pubblico. Allo stesso tempo le autorità saudite, impegnate a inviare messaggi di amicizia e collaborazione all’Amministrazione Usa, difficilmente stringeranno la morsa su dissidenti, attivisti dei diritti umani e oppositori politici. Almeno non lo faranno in questo periodo.

Il potente principe ereditario Mohammed bin Salman (MbS) dopo aver goduto per quattro anni della protezione di Donald Trump, sa che deve conquistare la fiducia di Joe Biden. Non è sfuggito il rilascio, la scorsa settimana, su cauzione di due attivisti con cittadinanza statunitense in attesa del processo, il giornalista Bader al Ibrahim e il commentatore politico Salah al Haidar. Domenica sono state commutate a dieci anni di carcere le condanne a morte di tre giovani di fede sciita – Dawood al Marhun, Ali al Nimr e Abdullah al Zaher – arrestati nove anni fa quando erano minorenni con l’accusa di terrorismo e partecipazione a manifestazioni non autorizzate. Il loro rilascio è previsto tra quest’anno e il 2022.

MbS deve compiacere ma fino a un certo punto l’alleato nordamericano. I rapporti tra i due paesi erano e restano solidi, l’alleanza è più forte che mai nonostante la Casa Bianca abbia congelato la vendita di armi a Riyadh e sospeso il suo appoggio all’offensiva saudita in Yemen. E per quanto riguarda i diritti umani Washington, si sa, chiude un occhio, spesso tutti e due, quando a violarli è un paese alleato. Lo stesso Biden ha inviato un messaggio molto rassicurante agli alleati sauditi e israeliani affermando che non revocherà le sanzioni imposte dagli Usa all’Iran sino a quando Tehran non tornerà a rispettare l’accordo internazionale del 2015 sul suo programma nucleare, sebbene a mandare in frantumi l’intesa sia stato il suo predecessore Trump.

Israele comunque mette le mani avanti. Ieri il premier Netanyahu ha detto perentorio che le Alture del Golan, un territorio siriano che lo Stato ebraico occupa dal 1967, «resteranno per sempre parte di Israele», così come aveva riconosciuto Trump. Poche ore prima Blinken pur riaffermando che Washington appoggia l’occupazione israeliana del Golan, aveva avvertito che le cose potrebbero cambiare in futuro.

* Fonte: Michele Giorgio,  il manifesto[1]

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