Cile. Il giudice “ribelle” Daniel Urrutia Laubreaux denuncia la logica del «nemico interno»

by Elena Basso * | 20 Marzo 2021 9:35

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Daniel Urrutia Laubreaux ha 46 anni ed è giudice di garanzia del Settimo tribunale a Santiago del Cile, uno dei più importanti della capitale. È un giudice “ribelle” e negli anni è stato più volte al centro di fondamentali battaglie per i diritti umani. Nel 2004 ha firmato una tesi rivoluzionaria in cui dimostrava la complicità fra la Corte Suprema cilena e la dittatura di Pinochet. In risposta la Corte ha sanzionato Urrutia. Lo scorso novembre la Corte Interamericana dei diritti umani ha sancito con una sentenza storica che la Corte Suprema cilena ha violato la sua libertà di pensiero e d’espressione.

Dall’inizio delle proteste iniziate in Cile nell’ottobre 2019 contro il governo di Sebastian Piñera e le profonde disuguaglianze sociali che affliggono il Paese, le forze dell’ordine hanno represso duramente i manifestanti e ad oggi sono oltre 8mila i cittadini che hanno dichiarato di aver subito abusi durante i disordini.

Urrutia ha costantemente denunciato a livello internazionale le gravissime violazioni dei diritti umani sofferte dai manifestanti e per il suo impegno è stato minacciato di morte. Il 25 marzo 2020, dopo aver ordinato i domiciliari per 13 manifestanti che si trovavano in prigione preventiva, la Corte d’appello di Santiago ha aperto un processo disciplinare nei suoi confronti e lo ha sospeso dal suo ruolo.

Le proteste del cosiddetto «estadillo social», iniziate il 18 ottobre 2019, sono state criminalizzate dal governo?

Lo Stato cileno, in modo del tutto anticostituzionale, reprime e aggredisce da molto tempo i manifestanti: non è una novità. Nell’ottobre del 2019 è nata una ribellione popolare potentissima e violenta e si è generata una situazione di abuso così preoccupante per cui è considerato normale che i carabineros pestino i cittadini e li detengano in forma illegale. In Cile si violano costantemente i diritti di un gruppo specifico di persone: i manifestanti. Quando c’è una protesta che non piace al governo di turno, lo Stato la reprime in forma violenta attraverso i suoi agenti. Ovviamente questo accade solo quando si tratta di disordini contro il governo, quando ci sono manifestazioni a favore non c’è alcun tipo di repressione.

Da dove deriva questo comportamento?

La storia del nostro Paese è segnata dalla repressione (anche con uccisioni di massa) di proteste di lavoratori, di operai e delle fasce più povere della popolazione. Le dittature che hanno preso il potere negli anni ’70 nel continente latinoamericano si basavano sulla dottrina del «nemico interno» che rappresentava un pericolo per la sicurezza stessa del Paese e che, per questo, andava eliminato. Durante la dittatura di Pinochet chiunque fosse considerato sospetto veniva sequestrato e ucciso. Tutto l’apparato repressivo cileno si basava su questa dottrina e negli anni non ha modificato i suoi meccanismi. Lo Stato, l’esercito e i carabineros ancora oggi adottano la logica del «nemico interno». Quello che i poliziotti stanno facendo con i manifestanti dell’estadillo social non è diverso da ciò che fanno da moltissimi anni nella regione dell’Auracanía dove vivono i Mapuche, il popolo originario di Cile e Argentina.

C’è impunità per gli agenti delle forze dell’ordine che hanno commesso abusi contro i cittadini durante le proteste?

Mentre i manifestanti incarcerati vengono trattati molto duramente dalle Corti, gli agenti dello Stato che hanno commesso abusi ricevono condanne leggere o inesistenti. Nonostante le gravissime violazioni dei diritti umani che sono state commesse dal 18 ottobre 2019, sono pochissimi i membri delle forze dell’ordine che si trovano in carcere preventivo.

Migliaia di persone che si sono unite alle proteste sono state incarcerate, si possono considerare prigionieri politici?

In molti rifiutano questa definizione perché non li considerano «prigionieri di coscienza»: sostengono cioè che non siano stati incarcerati per le loro idee, che è poi l’essenza del prigioniero politico. Tutti i manifestanti incarcerati nel contesto delle proteste dell’estadillo social sono stati accusati di delitti perseguibili e non per le loro idee. Credo che sia una visione molto ristretta di quello che significa oggi essere un prigioniero politico.

Dunque quale dovrebbe essere oggi la definizione di prigioniero politico?

In uno stato moderno è molto difficile poter detenere una persona perché ha scritto un libro, ad esempio. Quindi per arrestarlo lo Stato ha bisogno di creare una parvenza di legalità che giustifichi la sua detenzione. La maggior parte dei manifestanti sono accusati di aver compiuto crimini di ordine pubblico, di aver lanciato oggetti o di aver rubato. Ma hanno davvero commesso questi reati o è stata la polizia ad aver creato le accuse? Purtroppo nella storia recente del Paese ci sono casi dimostrati di “montaggi” creati dalla polizia che hanno prodotto indizi e testimonianze false per accusare qualcuno di un delitto che non aveva commesso. È successo molte volte ed è considerato normale che accada, purtroppo. C’è da chiedersi: questi manifestanti sarebbero detenuti se non fosse per le prove false? E se non fosse per il fattore politico, queste persone sarebbero in prigione preventiva? Forse no.

Com’è utilizzata la prigione preventiva?

In questo contesto viene utilizzata come castigo anticipato. L’esempio più evidente si è verificato durante il processo della «Primera Linea» a 40 giovani arrestati durante uno scontro coi carabineros. Per 13 di loro che il 25 marzo 2020, in piena pandemia, si trovavano ancora in prigione preventiva, ho disposto gli arresti domiciliari totali in attesa del processo, dato che le condizioni in carcere non permettevano di affrontare in modo ragionevole l’emergenza sanitaria. In via del tutto eccezionale, dopo la sentenza la Corte d’appello si è riunita, ha annullato la mia decisione, mi ha sospeso e ha avviato un processo disciplinare nei miei confronti.

Cosa è successo in seguito?

Mi hanno trasferito, che perlomeno è una pratica antisindacale. È la classica pratica di prendere il dirigente molesto e trasferirlo dove non può dare fastidio. Ed è quello che hanno fatto con me. Non sto lavorando dove dovrei lavorare. L’indagine sul mio caso è finita a settembre e io continuo ad essere lasciato fuori dal tribunale. Non c’è una ragione legale per cui io non possa lavorare dove mi compete e non ho nessuna speranza che risolvano presto il mio caso.

* Fonte: Elena Basso, il manifesto[1]

 

ph by Brediors, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

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