Strage nel carcere di Modena, tanti i dubbi sull’archiviazione

by Francesco Maisto * | 20 Marzo 2021 6:46

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Ricordo bene quello che ho visto nelle carceri milanesi tra l’8 ed il 9 marzo dell’anno scorso e quello che ho potuto sapere dall’interno di altre carceri dislocate sul territorio nazionale.

Spero che di tutto si tenga vivo il ricordo, ed in particolare di quella “strage”, avvenuta a Modena in un contesto nazionale estremamente critico. Una strage senza precedenti nella storia carceraria.

I gravi fatti avvenuti il 9 marzo dell’anno scorso dentro e fuori del carcere di Modena e la vicenda più grave dei 13 morti sono descritti nella richiesta di archiviazione della locale Procura, e riguardano il decesso di 8 detenuti, mentre il procedimento per la morte di Salvatore Cono Piscitelli è pendente ad Ascoli Piceno all’esito di “rimbalzi” di competenze territoriali tra le Procure.

La data della richiesta non sembra casuale: il 26 febbraio 2021, dopo che, per un anno, tante istanze istituzionali e della società civile sono state avanzate per conoscere ufficialmente i nomi e le circostanze dei decessi.

Le conclusioni dell’inchiesta tra ritardi e omissis

La lettura dei paragrafi dedicati alla ricostruzione dei fatti, tra premesse generali e aspetti specifici per ciascun morto, induce a riflettere su alcune argomentazioni che meriterebbero approfondimenti da parte del Giudice.

Innanzitutto, destano perplessità gli omissis, il deposito della relazione preliminare della Polizia Penitenziaria solo il 21 luglio, e l’indicazione generica dell’attivazione delle Forze dell’Ordine a fronte del chiaro disposto dell’art. 93 del DPR del 39 giugno 2020, n. 230 che prescrive: «Qualora si verifichino disordini collettivi con manifestazioni di violenza tali da far ritenere che possano degenerare in manifestazioni di violenza, il direttore dell’istituto, che non sia in grado di intervenire efficacemente con il personale a disposizione, richiede al prefetto l’intervento delle Forze di polizia e delle altre Forze eventualmente poste a sua disposizione ai sensi dell’art. 13 della legge 1 aprile 1981, n. 121, informandone immediatamente il magistrato di sorveglianza, il provveditore regionale, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria».

Stupiscono, poi, sia la mancata identificazione della “catena di comando”, a fronte di una rivolta di dimensioni tali (il trasferimento verso altre carceri ha riguardato ben 417 detenuti) da farne ritenere impossibile l’accentramento in capo al comandante di reparto e al suo vice, sia la mancata menzione dell’eventuale ruolo di un direttore, ovvero dell’eventuale presenza, obbligatoria per legge, del PM e del Magistrato di Sorveglianza.

Eppure, per quanto difficoltosa, tale identificazione fu possibile nel procedimento per i fatti del G8 di Genova, come in quello per il famigerato “settembre nero di S. Vittore”, nel 1981, in cui, dopo l’intervento violento della “forza esterna”, furono trasferiti 130 detenuti senza alcun evento letale. Ed erano quelli tempi in cui non erano stati ancora costituiti nuclei speciali della Polizia penitenziaria.

La documentazione medica mancante

Desta perplessità che lo scenario evocato – quello di “medicina da campo da guerra” – abbia impedito non solo ogni documentazione della visita sanitaria prima del trasferimento (visita prevista dalla legge penitenziaria), ma anche l’identificazione dei detenuti ai fini dello smistamento tra quelli da trattenere, quelli da ricoverare in ospedale e quelli da trasferire (penso alla posizione di Rouan Abdellah, deceduto ad Alessandria). Ciò, nonostante la chiara individuazione dei “fronti” di attacco finalizzati alle evasioni.

Sarebbe dunque importante che il Giudice accertasse se, nella situazione rappresentata dal PM, sia stata data corretta applicazione all’art. 83 del DPR 30 giugno 2000, n. 230 in tema di trasferimenti dei detenuti – articolo che non prevede eccezioni – laddove dispone al comma 2: «Il detenuto o l’internato, prima di essere trasferito, è sottoposto a perquisizione personale ed è visitato dal medico, che ne certifica lo stato psico-fisico, con particolare riguardo alle condizioni che rendano possibile sopportare il viaggio o che lo consentano».

Stupisce, altresì, l’inadeguatezza del personale sanitario e di polizia delle carceri di destinazione dei trasferiti nella gestione degli stessi con il dovuto rigore e rispetto, evitando qualunque forma di rivalsa.

E poi: con quale criterio e verso quali carceri furono effettuati i trasferimenti di competenza del DAP, individuali e verso altre Regioni (da Modena a Trento, ad Ascoli Piceno), a distanza di centinaia di chilometri e per tante ore di viaggio, nonostante le risorse penitenziarie e sanitarie in Emilia-Romagna?

La richiesta del PM, sulla base delle autopsie, ricollega, sostanzialmente, il decesso degli otto detenuti, all’eccessiva assunzione di metadone e farmaci equivalenti a seguito dell’assalto all’infermeria, ma nulla dice su eventuali tentativi di somministrazione del Narcan in loco (pure disponibile nelle tende di soccorso apprestate fuori dal carcere), prima di avviarli verso carceri distanti centinaia di chilometri.

Allora si pone la questione della custodia dei farmaci, sia per quanto riguarda la quantificazione di quelli sottratti, sia per quanto riguarda l’accesso alla cassaforte.

Sulla quantificazione si dice che la rilevazione è stata fatta dalla Polizia Giudiziaria tra l’11 e il 12 marzo in base ai registri di carico e scarico, ma in altra parte della stessa richiesta del PM risulta che i cartacei non sono stati trovati e che invece è stata trovata nell’infermeria per terra la USB di registri dei farmaci.

E poi, la cassaforte, secondo la ricostruzione, era chiusa a chiave, conteneva farmaci, e le due infermiere si erano barricate dentro l’infermeria, protetta da una porta a vetri e da una porta blindata. Si trattava di un “blindo”, e si dice che i rivoltosi sarebbero entrati dopo avere “tagliato” il supporto del finestrino del blindo stesso con un flessibile. Non si adduce, tuttavia, la prova di tale “taglio”.

Anche le infermiere sarebbero riuscite a uscire dal finestrino del blindo.

Penso in particolare, alla singolarità della posizione di Chouchene Afed, di anni 34, da scarcerare dopo tre mesi, che muore per eccesso di metadone perché avrebbe bevuto a canna una bottiglia di tale sostanza, ma che, all’atto del decesso, fuori, nella tenda per il soccorso, viene trovato in possesso di quantità notevoli di farmaci occultati negli indumenti; così come, il giorno dopo, nella sua cella vengono rinvenute altre notevoli quantità di farmaci portati dopo l’assalto alla farmacia. Una contraddizione.

Spero che anche questi elementi vengano chiariti dal GIP per la ricerca della verità. Non bisogna dimenticare.

I pestaggi a freddo e le sanzioni

Nella presentazione di questa giornata di memoria avete scritto di «Rappresaglie che si sono succedute, tante e violente, durante e dopo le lotte, sui pestaggi avvenuti dopo che “l’ordine” era già stato ristabilito».

Indipendentemente dalla qualificazione, ricordo che nella Casa di Reclusione di Milano Opera, dove il 9 marzo si sono verificati disordini e l’intervento della Polizia Penitenziaria in tenuta antisommossa, sono stati sanzionati disciplinarmente detenuti non individuati poi come responsabili dalla Procura milanese. In particolare, la notizia di reato del 16 marzo ha riguardato ben 82 persone, mentre Il PM ha chiesto il giudizio solo per 22 detenuti. Quindi ben 60 persone estranee hanno subito sanzioni disciplinari – in forza di ben 82 procedimenti svoltisi paradossalmente in qualche giorno – anche con privazioni alimentari e artificiose ostatività alla concessione dei benefici previsti dalla normativa anti-Covid di cui al DL del 16 marzo 2020.

Infine, bisogna stigmatizzare le falsità sull’orchestrazione delle proteste da parte della criminalità organizzata e della tesi secondo la quale, in quella occasione, ci fu un secondo patto tra lo Stato e la criminalità organizzata. L’eterogeneità tanto delle modalità delle proteste, quanto delle richieste avanzate dai detenuti dalle diverse carceri sembrano escludere qualsiasi patto. Ma su questo spero che presto faccia chiarezza la Procura nazionale antimafia.

 

* Garante delle persone private della libertà, Comune di Milano

 

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