Pandemia sociale. La Pasqua dei nuovi poveri e senza reddito, in fila per un pasto

Pandemia sociale. La Pasqua dei nuovi poveri e senza reddito, in fila per un pasto

Loading

Da Genova a Vicenza e Cosenza si teme il momento in cui saranno sbloccati i licenziamenti e gli sfratti: “L’onda crescerà”. È l’esito del fallimento di un Welfare emergenziale e del rifiuto di estendere il “reddito di cittadinanza” con misure incondizionate e universali. A Roma i movimenti per la casa e le associazioni protestano contro il piano “Lupi-Renzi” che colpisce gli occupanti per necessità in situazioni drammatiche nella pandemia

La fila lunga mezzo chilometro vista anche ieri a Milano alla vigilia di Pasqua in attesa di ricevere un pasto con uova di cioccolata e colombe è la concretizzazione del dato sconvolgente comunicato dall’Istat il 4 marzo scorso: le famiglie in povertà assoluta sono oltre 2 milioni, 335 mila in più. In totale gli individui censiti in questa condizione sono 5,6 milioni, oltre un milione in più rispetto al 2019. Dopo il primo anno della pandemia ci sono in Italia un milione di individui poveri assoluti in più che non riescono a sostenere le spese per la casa, per la salute e il vestiario, i pasti e quelle per i figli.

QUESTA SITUAZIONE è, da mesi, visibile in viale Toscana a Milano, una delle sedi di Pane Quotidiano, l’associazione laica di volontariato milanese (dal 1898), a pochi passi dalla nuova sede dell’università Bocconi dove sorgono torri avveniristiche e circolari, mentre le file arrivano al semaforo dell’incrocio con via Castelbarco. Qui, ogni giorno, raccontano i volontari, ci sono circa 3500 persone che ritirano un pasto, la fila può durare anche un’ora. Al sabato si mettono in fila anche oltre 4 mila persone. Il profilo sociale del povero è quello del lavoratore impoverito, non solo straniero ma sempre di più anche di cittadinanza italiana, disoccupato e precario. Comunque di una persona che, prima della pandemia, si manteneva in equilibrio sul bordo della povertà e, negli ultimi mesi, è stato preso in pieno e, più, è stato escluso dai bonus simbolici, temporanei e occasionali erogati dal governo «Conte 2» e oggi prorogati solo in una piccola parte residuale dall’esecutivo Draghi. I volontari milanesi raccontano di incontrare liberi professionisti, persone con lavori precari, non regolari e anche in nero, che non hanno potuto accedere al Welfare dell’emergenza e oggi sono ancora più esclusi. Una percentuale rende l’idea: il 65 per cento di chi ricorre sono stranieri, ma nell’ultimo anno si sono moltiplicati gli italiani. Il menu cambia, di solito sono previsti 300-350 grammi di pane, un litro di latte, un pacco pasta, yogurt, formaggi e talvolta anche salumi, frutta e verdura e dolciumi.

ALLA MENSA di Santa Sabina della Comunità di Sant’Egidio di Genova hanno calcolato un aumento dei pasti serviti ogni giorno dall’inizio della pandemia da 450 a 850. La composizione sociale si avvicina molto a quella vista a Milano. Anziani, madri sole, padri separati, colf, ma anche giovani che non riescono a sopravvivere con lavori precari. E poi professionisti ultracinquantenni, spesso lavoratori autonomi per i quali è impossibile accedere al modesto, e simbolico, bonus con il nome impronunciabile «Iscro». Il reddito massimo da dimostrare per accedere a questa misura è 8.350 euro annui, mentre la media di chi è iscritto alla gestione separata Inps è 15 mila euro. I responsabili della mensa sostengono che era dall’ultima guerra che non si vedeva in città una richiesta così massiccia di aiuti primari. A Genova la sensazione è che siamo solo all’inizio. L’onda della crisi sociale è lunga e sta montando.

LA POVERTA’ non dilaga solo a Nord, ma anche a Sud. Alla Fondazione Casa San Francesco D’assisi-Onlus di Cosenza è stato descritto un profilo sociale preciso delle nuove povertà che riguardano «anche nuclei familiari che fino a prima della pandemia avevano un equilibrio anche non precario e che ora accedono ai nostri servizi dall’esterno. Chi, invece, aveva un equilibrio precario, è stato completamente sconvolto. Penso a tutti quelli che lavoravano in nero, o alla giornata, ma anche alle famiglie monoreddito».

UNO SPACCATO SOCIALE di questa situazione è emerso ieri in un rapporto della Cgia di Mestre. Camerieri in attesa di tornare a lavorare che si improvvisano edili, dipintori, idraulici, giardinieri o addetti alle pulizie. Eseguono piccoli lavori pagati poco e in nero che permettono a molte famiglie di mettere assieme il pranzo con la cena. Addetti del settore alberghiero e della ristorazione, parrucchiere ed estetiste che si recano nelle case degli italiani ed esercitano irregolarmente i servizi e i lavori più disparati. In una crisi che ha già bruciato 450 mila posti soprattutto precari, sta facendo crescere il lavoro in nero. Prima della pandemia erano 3,2 milioni di persone. Tuttavia il numero di questi invisibili è difficilmente quantificabile, così come lo sarà quello di chi lavorerà in nero nelle campagne durante le raccolte stagionali.

L’ASSENZA DI UN REDDITO di base non favorisce solo la crescita del lavoro nero e senza diritti, ma anche della povertà dei bambini. In settimana Save The Children ha reso nota la stima: sono 160 mila i bambini che non hanno accesso a un pasto garantito dalle mense scolastiche. Questo è un aspetto drammatico della chiusura delle scuole decisa in Italia, un paese che ha uno dei record europei negativi di didattica in presenza. La mensa era uno dei modi usati dai genitori per assicurare ai figli un pasto quotidiano. Questo, in realtà, non avviene in maniera uniforme sul territorio nazionale. Su 40.160 edifici scolastici, solo 10.598 hanno una mensa. A Nord ce ne sono di più, a Sud molto meno. Questo è un altro aspetto sostanziale della povertà educativa, aumentata a causa delle carenze tecnologiche che in Italia non assicurano un diritto all’accesso alla rete uguale per tutti e per le condizioni abitative dove le famiglie sono state costrette a convivere in spazi angusti durante la pandemia.

Strettamente collegata a questa situazione è la condizione sempre più precaria delle donne. L’Istat ha fatto un primo bilancio parziale degli effetti del ‘lockdown’ dell’ultimo anno. Tra il secondo trimestre del 2019 e quello del 2020 sono saltati 470.000 posti per le donne. E, su 100 impieghi persi al tempo del Coronavirus sono il 55,9%. Commentando con Il Manifesto questi dati Chiara Saraceno ha detto: «Si sono persi molti redditi principali nelle famiglie, ma anche molti secondi redditi, quelli che di solito permettono di mantenere il nucleo sopra la soglia della povertà. Sono le donne ad avere il secondo reddito, sono loro a fare da cuscinetto di riserva. La crisi le colpisce molto duramente».

IN QUESTA SITUAZIONE il timore è che alla fine del blocco dei licenziamenti a fine giugno per chi lavora nelle Pmi e nelle grandi imprese, e in autunno, per gli occupati nelle micro e piccolissime aziende, la fine delle proroghe dei cosiddetti «sostegni» (ex «ristori») si aggiungeranno molti altri a questi esclusi dal Welfare sia dal cosiddetto «reddito di cittadinanza» che dal «reddito di emergenza». Misure che non hanno impedito tale aumento della povertà perché pensate per segmentare la povertà e governare l’esclusione dei poveri. Non avere pensato l’anno scorso come più volte scritto anche su Il Manifesto ad allargare, in maniera incondizionata e senza vincoli, il «reddito di cittadinanza» inteso come misura unica e universalistica sta comportando queste conseguenze.

GIA’ NELL’OTTOBRE scorso il rapporto Caritas 2020 aveva descritto gli effetti delle politiche sociali estemporanee adottate in Italia nei primi mesi del lockdown duro. Con l’introduzione del reddito di emergenza è stato il «paradosso di misure emergenziali che generano esclusione e favoriscono gli “affiliati” al sistema di protezione e assistenza sociale, invece di coinvolgere nella maniera più ampia e inclusiva i destinatari dei sostegni». Un simile paradosso è stato l’effetto della moltiplicazione dei sussidi (i bonus per le partite Iva iscritte all’Inps e ad altre categorie di lavoratori indipendenti e intermittenti) e dei sussidi (il «reddito di emergenza» che ha duplicato temporaneamente il cosiddetto «reddito di cittadinanza»). Insieme, questi elementi, hanno rafforzato una politica tradizionale in Italia, quella della segmentazione della povertà in categorie create per governare i poveri e respingere nell’invisibilità milioni di altri che ora riappaiono nelle file in molte città.

MENTRE la politica si industria a sdoppiare il reddito di cittadinanza in una politica dell’assistenza e in una delle «politiche attive del lavoro», già prevista dalla legge che lo ha istituito nel 2019, continua l’inesorabile frammentazione della misura a livello regionale. Ad esempio in Puglia dove nel primo mandato del presidente Emiliano è stato varato un «reddito» locale, chiamato «reddito di dignità» (Red). Questo modello risponde alla consueta idea «workfarista» per cui i poveri devono lavorare in cambio di un sussidio a tempo da 500 euro mensili in media. E questo anche quando non esiste un lavoro e mancano gli strumenti amministrativi per la formazione obbligatoria. In più mancano anche i fondi. «Purtroppo – ha detto l’assessora regionale al Welfare, Rosa Barone – viste le tante domande arrivate l’assessorato è stato costretto a sospendere la presentazione delle domande il 30 dicembre 2020 e tante sono state quelle ammissibili ma non finanziabili». In ogni caso la Puglia investirà altri 22 milioni di euro e sostiene che arriveranno a 3.600 famiglie.

A VICENZA la Caritas Diocesana racconta che, oltre alle richieste di cibo alle mense, ci sono anche quelle per i posti letto. Prima della pandemia riguardavano una media di due italiani, oggi è salita a sette persone che non hanno un tetto e chiedono ospitalità. Sono persone più che adulte che hanno perso il lavoro e non riescono a pagare l’affitto. Questa situazione potrebbe peggiorare quando scadrà la proroga del blocco degli affitti dopo il prossimo 30 giugno. Nessuno, in un anno di pandemia, ha pensato a rilanciare una politica pubblica del diritto all’abitare.

L’UNIONE INQUILINI ha chiesto un vero piano pluriennale e strutturale di edilizia residenziale con le risorse del «Recovery plan». Venerdì 9 aprile i movimenti per la casa di Roma, insieme a associazioni come a Buon Diritto, Asgi e altri hanno lanciato una mobilitazione all’anagrafe della Capitale contro il «Piano casa» Renzi–Lupi ancora in vigore dal 2014 che, di fatto, i poveri che vivono in occupazione per necessità vengono espulsi dallo stato di diritto e privati dei diritti fondamentali. Anche nella pandemia la guerra ai poveri continua.

* Fonte: Roberto Ciccarelli, il manifesto



Related Articles

“Il proibizionismo ha fatto disastri tanti leghisti la pensano come me”

Loading

L’assessore lombardo Fava: “Salvini ora faccia una sintesi delle posizioni, io non cambio idea”

Torino antifascista. Picchiata dalla polizia insieme ai miei studenti

Loading

Sembrava tutto finito, il Fuan si era allontanato, gli studenti avevano intonato “Bella ciao” e stavamo per tornare al nostro lavoro, quando improvvisamente la carica, gli scudi e i manganelli addosso

Orsoni torna libero ma il Pd lo scarica “Se ne deve andare”

Loading

Venezia, il primo cittadino Orsoni patteggia 4 mesi di pena “Mi dissero che anche i miei predecessori presero soldi”

No comments

Write a comment
No Comments Yet! You can be first to comment this post!

Write a Comment