Ergastolo, le motivazioni della prudente sentenza della Consulta

by Eleonora Martini * | 12 Maggio 2021 10:02

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È sempre libera la scelta dell’ergastolano che deve decidere se collaborare con la giustizia per avere la speranza di tornare prima o poi in libertà, mettendo però a rischio se stesso e i propri cari, o viceversa se optare per «un destino di reclusione senza fine»? È la domanda chiave alla quale i giudici della Corte costituzionale hanno risposto con l’ordinanza 97 del 15 aprile scorso (redattore Nicolò Zanon) – depositata ieri – che concede al legislatore tempo fino all’udienza del 10 maggio 2022 per rimuovere il divieto automatico e assoluto della liberazione condizionale per gli ergastolani mafiosi “non pentiti”. Si legge infatti nelle motivazioni della sentenza, che ha definito incostituzionale il cosiddetto ergastolo “ostativo”, che «in casi limite può trattarsi di una “scelta tragica”».

La collaborazione con la giustizia – scrive la Corte presieduta dal giudice Giancarlo Coraggio – sia pur «ragionevole» metro di giudizio, «non necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento, così come il suo contrario non può assurgere a insuperabile indice legale di mancato ravvedimento». La collaborazione infatti può essere dettata da «valutazioni utilitaristiche» e non «anche segno di effettiva risocializzazione», mentre il rifiuto a collaborare «può esser determinato da ragioni che nulla hanno a che vedere con il mantenimento di legami con associazioni criminali». Dunque, «l’incompatibilità con la Costituzione deriva dal carattere assoluto della presunzione, che fa della collaborazione con la giustizia l’unica strada a disposizione dell’ergastolano per accedere alla valutazione della magistratura di sorveglianza da cui dipende la sua restituzione alla libertà». Mentre invece, secondo i giudici, la decisione spetta al Tribunale di sorveglianza che valuterà caso per caso.

Perché – sottolinea la Corte – «è proprio l’effettiva possibilità di conseguire la libertà condizionale a rendere compatibile la pena perpetua con la Costituzione». Se questa possibilità fosse infatti preclusa in via assoluta, l’ergastolo – spiega la sentenza – sarebbe in contrasto con la finalità rieducativa della pena (articolo 27 della Carta) e con le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo.

La Consulta ha deciso però di non demolire immediatamente le norme (artt.4 bis e 58 ter L. 354/75; art.2 L. 203/91) per non «produrre effetti disarmonici sul complessivo equilibrio di tale disciplina, compromettendo le esigenze di prevenzione generale e di sicurezza collettiva». Inoltre, dovendo la Consulta attenersi al caso di specie sollevato dalla Cassazione, riguardante un mafioso condannato all’ergastolo “ostativo”, l’intervento demolitorio avrebbe creato una disparità con i condannati al carcere a vita per altri tipi di reati (dal terrorismo ai delitti contro la pubblica amministrazione o quelli di natura sessuale) che si rifiutano di collaborare. Proprio per questo nell’ordinanza i giudici costituzionali invitano il legislatore ad un intervento normativo che eviti diseguaglianze.

Se poi il Parlamento non dovesse legiferare in materia, entro l’anno, la Corte «potrà persino estendere l’ambito del suo intervento, rimuovendo le preclusioni anche per l’accesso alle misure “intermedie” che consentono un graduale avvicinamento alla libertà, quali la semilibertà e il lavoro all’esterno. Insomma, questa ordinanza può spianare la strada per il ricorso a quella che si definisce illegittimità consequenziale», spiega Marco Ruotolo ordinario di Diritto costituzionale all’Università Roma Tre.

E avverte: «In ogni caso però né la libertà condizionale né i permessi premio potranno essere concessi ai reclusi al 41 bis, perché presupposto di quel regime è l’attualità del collegamento con la criminalità organizzata. Perciò, prima di poter richiedere i “benefici”, il condannato dovrebbe ottenere la revoca del carcere duro, dimostrando che quei collegamenti non sono più attuali. E la competenza in materia – conclude Ruotolo – spetta, per legge, al Tribunale di sorveglianza di Roma e non ai magistrati del luogo in cui il condannato è recluso».

* Fonte: Eleonora Martini, il manifesto[1]

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