Storie dal 41 bis: l’ergastolo della parola
Il carcere è sempre negazione di libertà. Non solo quella degli spazi, quella che immediatamente si percepisce del relegare individui in luoghi asfittici e chiusi mancanti di tutto, in coatta convivenza con altri, con altre umanità, culture, abitudini diverse dalle proprie, a volte inconciliabili, a rinunciare ai prati, al mare, talvolta anche al cielo. È negazione della libertà di essere, in ogni forma. Di decidere a che ora svegliarsi, lavarsi, leggere o studiare, impegnarsi in qualcosa, occupare il proprio tempo, lavorare. È rinuncia agli affetti che sono contratti in telefonate misurate in un tempo sempre troppo piccolo, in incontri spiati sottratti a ogni anelito di intimità. È menomazione di personalità in un rapporto impari con i propri custodi che impone di resistere a ogni angheria, a ogni sopruso. A reagire con il silenzio a ogni privazione anche quando indebita e perfino oltraggiosa; a porgere l’altra guancia supinamente e a subire la mortificazione di sé che trae inaccettabile legittimazione nella convinzione istituzionale che la perdita di dignità sia conseguenza ineluttabile dell’aver meritato una punizione. Ad accettare una visione di Stato etico e moralizzatore che vuole il buon detenuto come uno scolaro obbediente, un soldato silente che si piega al potere senza opporsi, chiuso nella condizione della colpa.
Tanto più il circuito detentivo è chiuso, in ragione della gravità dei reati imputati alle persone recluse, tanto più stretti sono gli spazi residui di libertà. Tanto più sono preziosi, tanto più capillare e sfaccettato è il potere della pubblica amministrazione di contrarli, di violarli, di calpestarli.
Per i detenuti in regime di 41 bis il “trattamento penitenziario ordinario” è sospeso a norma di legge. È sostanzialmente preclusa ogni attesa di riabilitazione, di reinserimento, di restituzione per un tempo indeterminato in ragione di una legge che resiste alle censure di costituzionalità per la sua vocazione astratta a garantire la sicurezza sociale. Il regime viene rinnovato da decreti ministeriali sempre uguali a sé stessi per anni, per decenni, con un giudizio di immanente capacità criminale di chi vi è sottoposto ancorato al reato, mai all’uomo, che è stigma immutabile mai scalfito dal tempo, il grande scultore, che cesella le vite recluse e quello che erano fuori.
In 41 bis il rapporto con i propri affetti è limitato a un incontro al mese, per un’ora, dietro a un vetro divisore a tutta altezza. Ove non sia possibile per i familiari, che si trovano per legge in luoghi lontani da quello di reclusione, raggiungere il proprio caro, il colloquio è sostituito da una telefonata di dieci minuti che i parenti riceveranno in un carcere vicino alla loro abitazione. Non ci si abbraccia al 41 bis, non ci si tiene per mano con la propria madre, il proprio padre, i propri figli, per anni, per decenni, a volte per sempre. Non c’è la pietà dell’ultimo saluto al genitore morente; una lacrima sulla sua bara prima della sepoltura. La distorsione del concetto di sicurezza sociale inghiotte ogni anelito di umanità. Resta la possibilità di scriversi, di raccontarsi attraverso le lettere, unico strumento per rendere la persona detenuta partecipe di ciò che accade ai suoi cari, dei cambiamenti inevitabili che spostano gli equilibri nelle famiglie, i figli che crescono, le loro storie che si disegnano. La corrispondenza è sottoposta a controllo e il censore respinge come indebito ogni scritto che non gli appaia di immediata comprensione, che possa prestarsi a più interpretazioni e ogni parola è fonte di sospetto, ogni esperienza narrata è vagliata nell’ottica del pregiudizio e della plausibile o solo ipotizzabile capacità di occultamento di un messaggio criminoso. Così il filo si spezza e nelle lettere si scrive il meno possibile, ci si limita a comunicazioni minime e si lascia fuori il racconto, la storia, il vissuto quotidiano e l’amore si relega alla dimensione del ricordo, al concetto sempre più astratto di famiglia, se resiste. Per chi è in carcere, in 41 bis, ad ascoltare il silenzio, ad aspettare il niente, comunque, le parole dei propri cari sono conforto, respiro, occasione di contatto, a volte l’unica, la sola occasione per avere notizie da fuori, per sapere che le persone che si amano stanno bene. Scrivere una lettera è l’unico mezzo per toccarle, per entrare nelle loro giornate, per esserci anche se si sa che l’intimità è violata, che le parole devono essere cesellate, contate e scelte con cura per passare indenni al vaglio del censore.
Francesco scrive a sua figlia, cerca di spiegarle che la c.d. “censura” finisce per non fare quello che dovrebbe, prevenire il crimine, che costringe i sentimenti in scambi esili, asfittici, che le parole sono in sé indice di sospetto, che bisogna evitare le frasi fraintendibili, di lettura non immediata ed univoca. Che non funziona niente.
La lettera viene trattenuta. Il magistrato di sorveglianza avalla il trattenimento senza motivazione alcuna. Il tribunale respinge il reclamo di Francesco. Reputa il provvedimento legittimo: “nella missiva trattenuta il detenuto non intendeva per la verità comunicare alcunché a sua figlia, destinataria della missiva, bensì egli ha voluto utilizzare l’espediente della missiva per portare l’Ufficio Controllo Posta a conoscenza diretta delle proprie lamentele in ordine alle modalità con cui viene operato il controllo della posta e il trattenimento delle missive. Nel merito il provvedimento di trattenimento appare corretto: in una tale situazione, è evidente che l’eventuale autorizzazione alla consegna della missiva alla formale destinataria potrebbe determinare in quest’ultima un ingiustificato allarmismo e indurla a intraprendere azioni tali da porre in pericolo la sicurezza esterna degli istituti penitenziari. Di conseguenza appare giustificato e ragionevole il trattenimento della missiva al fine di salvaguardare il rischio di un pregiudizio per l’ordine e la sicurezza non meglio preventivabile”.
In pratica, secondo il tribunale, il detenuto si rivolge “a suocera perché nuora intenda”. Non voleva dirlo davvero alla figlia che il controllo della corrispondenza tracima i propri compiti dando corpo a una insormontabile difficoltà di comunicazione con i propri affetti. Voleva parlare indirettamente proprio ai suoi censori e se la figlia lo avesse appreso ricevendo la lettera, avrebbe potuto porre in essere azioni “tali da porre in pericolo la sicurezza esterna degli istituti penitenziari”. Un vero, insormontabile, corto circuito della ragione. Oltre l’interpretazione delle parole, quella della volontà recondita. Oltre alla prevenzione del crimine, la assiomatica e astratta ipotesi del rischio, “un pregiudizio per l’ordine e la sicurezza non meglio preventivabile”. Nella sostanza il veto insensato e cieco per una persona detenuta di dire qualcosa del suo esistere ai propri cari, di lamentarsi della propria condizione, la proibizione del cercare conforto facendo conoscere a chi si ama lo struggimento dei propri limiti, l’ergastolo della parola.
* Avvocato
Related Articles
L’allarme del Viminale sulla Libia “Con la rotta balcanica chiusa 200mila profughi pronti a partire”
Riprendono gli sbarchi: negli ultimi giorni salvate 4mila persone. Pressing per interventi anti-scafisti sulle coste di Tripoli
L’eterna vendetta di Erdogan contro il popolo kurdo
«Contro i curdi si applica la legge antiterrorismo: tutte le attività politiche vengono criminalizzate. Lo si vede in queste sentenze. Possono anche rilasciarci, non significa che siamo liberi». Intervista a Sebahat Tuncel, prima deputata curda eletta dal carcere
Quei 19.142 caduti