Myanmar. La giunta golpista apre il processo farsa a San Suu Kyi

Myanmar. La giunta golpista apre il processo farsa a San Suu Kyi

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Ai militari birmani deve essere sfuggito che, nel silenzio generale che circonda il loro golpe in Myanmar, processare pubblicamente Aung San Suu Kyi, apparsa ieri in tribunale a Naypyidaw per rispondere alle prime tre accuse che le pendono sul capo, avrebbe almeno per un attimo riportato nuovamente i riflettori sul sanguinario colpo di Stato del 1 febbraio scorso.

Ma per la giunta il processo è il modo, per quanto farsesco, per far apparire «legale» l’illegalità che ha fatto loro smembrare il parlamento appena eletto e che ora vede il ministero dell’interno cominciare un’indagine sui fondi dei vari partiti politici per dar base legale alla messa fuori legge di qualsiasi opposizione. Indagine accompagnata da una lettera a tutti i deputati eletti l’8 novembre scorso che li mette in guardia da qualsiasi contatto con il governo ombra di unità nazionale (Nug).

Il processo farsa alla Lady, al presidente Win Myint e all’ex sindaco della capitale Myo Aung, è iniziato ieri e riprenderà oggi, siamo solo alle battute preliminari. Ieri si è cominciato con tre casi per Suu Kyi (possesso di walkie-talkie importati illegalmente, violazione della legge sulle telecomunicazioni e di quella sulla gestione dei disastri naturali) accanto a un’accusa sempre sulle legge che riguarda i disastri contestata anche a U Win Myint.

La corte – riferisce il quotidiano Irrawaddy – ha ascoltato solo i testimoni dell’accusa senza controinterrogatorio. Chiaramente un processo a senso unico se si pensa che, tra l’altro, gli imputati hanno potuto vedere i loro difensori, guidati dall’avvocato Khin Maung Zaw, solo due volte prima del processo.

Se le accuse fossero provate (corruzione, violazione della legge sul segreto di Stato, di quella sull’import-export, sui disastri naturali e per incitamento) comporterebbero una pena massima alla Lady (secondo i calcoli della Bbc) di 42 anni. Ma se anche fossero solo 25, come qualcun altro ha ipotizzato, la 75enne signora di Yangon, che venerdì prossimo ne compie 76, avrebbe davanti il carcere per il resto della vita.

«Questo processo è chiaramente l’inizio di una strategia globale per neutralizzare Suu Kyi e il suo partito», dice Phil Robertson, vicedirettore per l’Asia di Human Rights Watch, secondo cui le accuse del tribunale speciale della capitale sono «false e politicamente motivate» con l’intenzione di annullare la vittoria e impedire a Suu Kyi di candidarsi nuovamente.

Il mondo però non se ne preoccupa particolarmente. Nonostante la mobilitazione di sabato scorso in una ventina di Paesi e una lettera del governo clandestino a Boris Johnson perché mettesse il Myanmar nell’agenda del G7, se ne parla solo al 59mo punto (di 67) del comunicato ufficiale: per ribadire il sostegno all’Asean, l’associazione regionale del Sudest asiatico dimostratasi incapace di gestire il dossier se non avallando alla fine l’esistenza della giunta. Nulla invece sul Nug che sta tentando di ottenere un riconoscimento formale per poter essere rappresentato all’Onu.

Se poco è accaduto in Cornovaglia, nulla succede in Italia. Le interrogazioni parlamentari sulle munizioni italiane ritrovate in Myanmar sono già due (Palazzotto, Quartapelle) cui si è aggiunta qualche giorno fa anche un richiesta di Sensi (Pd) sul caso Cheddite, una vicenda su cui Sabrina Moles aveva fatto luce sul manifesto nel marzo scorso, anche se poi si chiarì che la ditta trevigiana aveva venduto sistemi di controllo telematico al governo democratico e non alla giunta.

Quanto alle pallottole invece, le interrogazioni, l’inchiesta del manifesto e soprattutto le richieste di diverse organizzazioni della società civile, non hanno avuto nessuna risposta. E in quel caso, le pallottole fabbricate in Italia (o forse assemblate altrove) arrivarono ai militari birmani quasi certamente in tempi non sospetti (cioè quando governava la Lady) ma è un fatto sia che fossero fuori legge, sia che sono state impiegate per reprimere una rivolta pacifica.

* Fonte: Emanuele Giordana, il manifesto



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