Pensioni, la propaganda e le cifre: rapporto UE smentisce le cassandre dell’austerità

by Matteo Jessoula * | 19 Giugno 2021 9:46

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Dopo trent’anni di riforme che hanno modificato radicalmente le regole di calcolo e di accesso alla pensione, il cantiere previdenziale sì è riaperto in vista della scadenza del triennio sperimentale di «Quota 100». Governo, partiti, sindacati e rappresentanze datoriali sono impegnati a individuare soluzioni che consentano di evitare lo «scalone» nell’accesso al pensionamento che scatta a fine 2021.

NON SORPRENDE che gli interessi siano contrapposti, specie tra sindacati e Confindustria, in un dibattito che ha spesso ha invocato il confronto con gli altri paesi europei per mettere a fuoco, fin dai primi anni Novanta, la peculiarità italiana circa l’accesso facile al pensionamento (il «paese delle baby pensioni») e il basso tasso di occupazione per i lavoratori anziani.

Dopo un trentennio, proprio i dati elaborati dalla Commissione Europea nel Pension Adequacy Report 2021, fresco di stampa, consentono di catturare nitidamente la situazione italiana oggi e di delineare la cornice entro cui dovranno opportunamente collocarsi le scelte dei decisori politici.

Il primo punto che emerge dal rapporto è che l’Italia ha, effettivamente, l’età pensionabile più alta d’Europa: 67 anni, contro i 65 e 9 mesi in Germania, 66 e 2 mesi in Francia, 65 in Austria, Belgio, Polonia. Peraltro, Francia e Germania consentono strutturalmente (dunque non tramite misure temporanee come Ape sociale, Opzione donna, Quota 100) il pensionamento anticipato rispettivamente a 62 anni e 63 anni e 10 mesi, così come la Svezia che consente il pensionamento «flessibile» entro la forchetta 62-68 anni.

LA TIPICA OBIEZIONE a questa analisi è che l’Italia ha sì l’età legale di pensionamento più elevata d’Europa, ma l’età effettiva di accesso alla quiescenza sarebbe molto più bassa, e inferiore alla media Ue, complici una serie di deroghe che consentirebbero di prolungare la tradizione del pensionamento anticipato.

Obiezione respinta: i nuovi dati della Commissione Europea ci dicono che non solo le regole formali di accesso al pensionamento sono tra le più stringenti, ma anche l’età media effettiva di uscita dal mercato del lavoro è tra le più elevate d’Europa (nonostante Quota 100 e meccanismi simili): 65,2 anni per gli uomini, 65,8 anni per le donne nel 2019, in linea con i paesi Scandinavi (Danimarca: 65 anni gli uomini, 64,1 le donne; 65,6 e 64,5 in Svezia) e sensibilmente più alta di Germania (64,7 e 64,5), Francia (62,3 e 62,2). Queste cifre sono il risultato delle severe riforme Sacconi e Fornero-Monti (2009-11), che hanno anche prodotto un robusto incremento del tasso di occupazione nella fascia di età 55-64 anni.

Se tale effetto può in generale considerarsi benvenuto, in un paese affetto dal cronico modesto rendimento del mercato del lavoro, gli effetti delle riforme rivelano marcate criticità da tre diverse angolature.

PRIMO, L’AUMENTO del tasso di occupazione è stato accompagnato dal drammatico incremento dei disoccupati nella fascia d’età 50-64 anni, più che quadruplicati in un decennio, dalle 128.000 unità del 2007 alle 539.000 del 2018, con il relativo tasso di disoccupazione che ha raggiunto il 6% nel 2019 – mentre è al 2,5% in Germania, al 3,3% in Danimarca.

Trattasi di un fenomeno nuovo per l’Italia, che negli ultimi quarant’anni aveva sempre mantenuto basso il tasso di disoccupazione dei lavoratori anziani, e soprattutto preoccupante per via delle peculiarità di questi lavoratori, spesso capifamiglia e con scarsissime possibilità di trovare un’occupazione regolarmente retribuita dopo i 55 anni.

SECONDO, ASSIEME a Polonia e Ungheria, l’Italia è il paese in cui la durata del periodo di pensionamento si è maggiormente ridotta – di oltre 4 anni – tra il 2008 e il 2018: considerando che ciò è avvenuto a fronte di un incremento modesto (1 anno) dell’aspettativa di vita a 65 anni nello stesso periodo, e soprattutto della stabilità, nell’ultimo quindicennio, del numero di «anni attesi in buona salute» (circa 10) una volta raggiunti i 65 anni, criticità evidenti emergono circa il rapporto tra estensione della vita lavorativa e durata della fase di quiescenza in buona salute, specie per le classi sociali più svantaggiate.

INFATTI, TERZO, una serie di studi ha messo a fuoco come, anche in Italia, le differenze nell’aspettativa di vita a 65 anni sono significative e raggiungono i 3-5 anni a sfavore degli individui appartenenti alla classe sociale più svantaggiata. Specie se osservato con riferimento all’elevata età di pensionamento, tale differenziale indica il chiaro profilo regressivo delle regole previdenziali italiane a danno degli individui con condizioni di vita e di lavoro meno favorevoli.

IN CONCLUSIONE, un ammorbidimento delle condizioni di accesso al pensionamento non soltanto non allontanerebbe l’Italia dalle regole vigenti negli altri paesi europei, ma è anche auspicabile, al duplice scopo di contrastare gli effetti negativi sul mercato del lavoro prodotti dalle riforme precedenti e aggredire l’iniquità delle attuali condizioni di accesso alla pensione.

* Professore ordinario, Università degli Studi di Milano, Fonte: Matteo Jessoula, il manifesto[1]

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