Mi ricordo di Genova, i lacrimogeni, le urla, le botte. E quel ragazzo morto

by Massimo Congiu | 19 Luglio 2021 19:54

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Arrivare a Genova nel pomeriggio di giovedì 19 luglio 2001 significava sottoporsi a una serie di disagi: tratte ferroviarie deviate, ritardi, approdo a Bolzaneto perché i treni non arrivavano nelle due stazioni principali. Il cielo era più o meno chiaro, ma sotto quel cielo estivo trovava posto una città blindata, transennata, negata ai suoi abitanti. Bella Genova quando si offre libera ai suoi visitatori e alla sua stessa popolazione. Bella, con quelle case disposte quasi ad anfiteatro che dal mare si arrampicano su per la collina una sopra l’altra, come spuntate dal nulla. Bella, ruvida e dolce al tempo stesso, ma quel giovedì di venti anni fa era ingabbiata in un susseguirsi di zone gialle e rosse, chiusa e semideserta. Si diceva che, temendo il peggio, molti genovesi fossero andati altrove: al mare, nella seconda casa, chissà, per tutta la durata del G8. “Qui, oggi, genovesi non ce ne sono più” aveva detto con uno spiccato accento del posto un anziano a un suo raro coetaneo incontrato per strada. Insomma, chi era partito, chi si era chiuso in casa.

Il colpo d’occhio era questo: ti guardavi attorno, vedevi passare qualche bus previsto nell’ambito di corse ridotte, sentivi il rumore degli elicotteri in perlustrazione, per poi aspettare il loro passaggio, chiudere gli occhi, reimmergersi in un silenzio inusuale e immaginare Genova baciata ancora dal sole e accarezzata dall’aria salmastra.

I minuti passavano e con essi le ore, e al culmine dell’esercizio di chiudere e aprire alternativamente gli occhi ti sentivi trasportato dalla corrente del corteo dei migranti: un fiume allegro e colorato che attraversava un pezzo di città: “Siamo tutti clandestini”, e poi ancora: “Genova libera”, gli slogan scanditi a più riprese. La tensione accumulata in precedenza sembrava svanire soprattutto al grido corale di “Fuori le mutande!” rivolto alle finestre e ai balconi. Sì, perché Berlusconi, all’epoca ahinoi, presidente del Consiglio, aveva raccomandato ai genovesi di non stendere i panni fuori per evitare inestetismi. Al passaggio del corteo un signore giovane con pochi capelli e un gran sorriso si era affacciato e aveva steso, serafico, un gran paio di mutande bianche, provocando un’ovazione, neanche fosse stato un papa.

Poi l’approdo a Piazzale Kennedy per rivolgersi agli organizzatori del controforum, ricevere un programma e capire dove andare a dormire. Quindi l’imbrunire, la pioggia battente, l’attesa e la partenza a piedi per lo stadio Carlini. Lì c’erano molta gente, molti sacchi a pelo, tende, numerosi gruppi di giovani e un’atmosfera ancora festosa. Ancora per poco.

La mattina dopo il cielo era azzurro, il sole splendente, lunga la fila di fronte a un forno per rimediare un pezzo di focaccia. Ancora strade deserte, un discesone che portava alla stazione Brignole, anch’essa deserta. Avete presente una stazione completamente vuota? In genere gli scali ferroviari sono un viavai di gente, ma quel giorno a Brignole c’era un silenzio irreale, come fosse stata abbandonata da tempo.

Era venerdì, era il 20 luglio, e il sole persisteva forte. Ecco i manifestanti, ed ecco le forze di polizia. Guardarsi attorno significava capire che la festa o ciò che la sera prima era sembrata tale, era finita.

Ricordo…

Ecco arrivare la prima carica: giusto il tempo di scavalcare un’aiuola, e la polizia in tenuta antisommossa era addosso a un gruppo di persone formato da manifestanti, qualche giornalista e membri del servizio organizzativo delle dimostrazioni. Tutta gente pacifica che non aveva provocato gli agenti né causato danni alle cose. “Sono un medico! Sono un medico!”, sentivo da dietro mentre saltavo l’aiuola. Ricordo che quando mi sono girato ho visto un giovane con i capelli corti ricci, una vistosa pettorina bianca con la croce rossa e il viso completamente insanguinato. I suoi occhiali da vista erano malconci quanto lui. Cosa poteva aver fatto? Ricordo poi un poliziotto col casco azzurro posato sulla testa forse rapata di fresco, un uomo alto e magro che raccomandava ai suoi “tirate ad altezza d’uomo”, immagino parlasse dei lacrimogeni. Ricordo l’obiettivo di una macchina fotografica che mi era stato puntato addosso, in lontananza, da un poliziotto. Avevo la tessera stampa spillata alla maglia. Ricordo auto rovesciate, date alle fiamme dai Black-Bloc e ATM presi a colpi di spranga sempre da questi fantomatici manifestanti a poca distanza da pattuglie di polizia che non intervenivano. Ricordo, sempre nel pomeriggio di quel giorno, degli agenti in borghese con facce poco raccomandabili che trascinavano per i capelli un ragazzetto rasta magro e non particolarmente alto. Aveva la faccia sporca di sangue. “No, dai!” avevo esclamato insieme a due fotografi. “Avete pietà di lui?”, ci aveva risposto uno dei poliziotti, uno con un berretto in testa e una faccia che mi ricordava vagamente quella dell’ex calciatore Paul Gascoigne, solo con un’espressione molto meno bonaria. Nel farci questa domanda si era avvicinato minacciosamente a noi. Il ragazzetto rasta è finito dentro una macchina dove è stato pestato brutalmente dagli agenti. Aveva tirato una pietra? Stava pagando il suo gesto a caro prezzo, interessi compresi, per mano di uomini che francamente sembravano arrivati lì solo per menare duro. In tre contro uno.

Ricordo quelle strade ancora assolate, l’odore acre dei lacrimogeni, le urla, l’ansia che cresceva e la notizia di un ragazzo ucciso a piazza Alimonda da un carabiniere, si era detto, in uno scenario di guerriglia urbana. Ricordo il rientro a piedi al Carlini, la paura di un’irruzione da parte della polizia, gli interventi angosciati dei manifestanti che si susseguivano al microfono per commentare quanto accaduto. Ricordo anche che la vittima aveva finalmente un nome: Carlo Giuliani. “Voglio andarmene via! Mi fa schifo Genova!”, aveva detto una ragazza sconvolta, in lacrime. Ricordo anche i manifestanti in piedi sugli spalti e quelli sul palco che esultavano alla notizia, chiaramente falsa, della sospensione del G8. “El pueblo unido jamás será vencido” e pugni alzati: una scena surreale.

Quella notte, complice la stanchezza fisica e morale per gli avvenimenti della giornata, ero riuscito a dormire. Sugli spalti, in mezzo ad altra gente. L’indomani mattina, la partenza per partecipare a un nuovo corteo pacifico e colorato a Corso Italia, con una grande partecipazione di popolo, gente che proveniva da diversi paesi. Era sabato, faceva molto caldo, il sole era forte; dalle finestre e dai balconi delle case venivano calati panieri con acqua, panini imbottiti, e c’era anche chi innaffiava con le pompe i manifestanti accaldati e arrossati dal sole. “Grazie, Genova!”, l’urlo scandito a più riprese dalla folla.

Sono i miei ultimi ricordi perché la sera ho preso il treno per lasciare Genova. Il resto è noto: le cariche contro il corteo, l’irruzione alla Diaz, l’orrore della caserma di Bolzaneto.

Quanti agenti hanno approfittato della divisa o comunque del loro potere per esercitare abusi contro dimostranti inermi? Violenza legalizzata, autorizzata, viene da pensare ad “Arancia Meccanica”. Un’orgia di violenza divenuta oggetto di un’indagine con capi d’accusa gravissimi che, oltre ai “maltrattamenti”, comprendono anche il depistaggio e la fabbricazione di prove false contro i dimostranti.

Sono passati vent’anni da allora, c’è chi per ovvi motivi non è più voluto tornare a Genova e chi ogni tanto ci torna, di persona o col pensiero, perché sente di averci lasciato qualcosa: la voglia di giustizia, l’ideale di un mondo più equo, il sogno di partecipare ad una protesta forte ma festosa e aggrappata alla vita. Quella stessa vita che era andata via da Carlo Giuliani nel fumo dei lacrimogeni.

Sono passati vent’anni, c’è chi da allora torna qualche volta a Genova e, pensando a quel saliscendi di panieri e alla preziosa acqua versata sui manifestanti accaldati, non può fare a meno di sollevare lo sguardo in alto, magari con un timido sorriso, nonostante tutto.

 

Testo e fotografia di Massimo Congiu

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