Tortura: un’ordinaria emergenza. Parla Marco Bertotto, presidente di Amnesty International
20 anni fa. Come eravamo e dove andiamo. Dal dossier n. 3/2001 dell’agenzia Testimoni di GeNova. Intervista a Marco Bertotto, presidente di Amnesty International
- Nel mondo, quattro Paesi su cinque praticano la tortura; in 70 Paesi la tortura è prassi sistematica
- In Italia e nei Paesi occidentali in genere la tortura ha una connotazione discriminatoria
- In Israele, fino al 1999, la tortura era non solo praticata, ma permessa da una legge specifica
- In Italia, a volte la tortura è praticata nelle carceri. Altre volte, come i fatti di Genova dimostrano, è praticata all’aria aperta
Qual è la situazione sulla tortura a livello internazionale, per come monitorata da Amnesty International?
Viviamo una vera e propria emergenza internazionale. Sono circa 150 i Paesi che negli ultimi tre anni abbiamo inserito nei nostri rapporti sulla tortura. In più di 4/5 dei Paesi del mondo, quindi, si pratica la tortura, in 80 Paesi ci sono delle vittime di tortura, ovvero persone che hanno perso la vita dopo una tortura o un maltrattamento, e in 70 Paesi la tortura è una prassi sistematica, per cui va al di là dell’eccezionalità del singolo caso. A fronte di Costituzioni che la vietano, leggi che la mettono fuori da ogni regola, diritto internazionale che la considera un crimine internazionale, la tortura rimane ancora oggi un problema di vittime da salvare. Siamo in una condizione per cui, a differenza della pena di morte su cui stiamo registrando un trend abolizionista che ci auguriamo continui, la tortura continua a essere praticata, a essere diffusa e nascosta, a costituire una vera e propria emergenza.
Quali sono i Paesi in cui la tortura è sistematica?
Sono molti. Quelli in guerra, per esempio, in cui la tortura è molto spesso un “bottino” per le truppe, altre volte è un metodo per annientare i prigionieri di guerra, i nemici. Ci sono Paesi che definiamo democratici, o nei quali comunque, le regole del diritto sembrano maggiormente rispettate. Negli Stati Uniti si tortura, in Italia si tortura…
Dove particolarmente in Italia?
In Italia ci sono fenomeni ricorrenti di maltrattamenti nelle carceri o nelle stazioni di polizia. In Italia e nei Paesi occidentali in genere la tortura ha una connotazione discriminatoria. Molto spesso è uno strumento, diremmo quasi, di “pulizia sociale”, colpisce i rifugiati, i richiedenti asilo, gli omosessuali (quindi c’è anche un fenomeno di discriminazione sessuale), i rom (in Europa), piuttosto che gli indigeni negli Stati Uniti. È uno strumento di repressione utilizzato nei confronti delle minoranze in senso lato.
Può citare qualche altro Stato in cui la situazione è particolarmente grave?
È difficile citare Stati particolari perché 4/5 del pianeta vuol dire poter citare quasi ogni Paese. Ci sono delle situazioni macroscopiche più particolari: in Israele fino al 1999, ad esempio, pochi lo sanno, la tortura era non solo praticata, ma permessa da una legge specifica, che consentiva l’utilizzo di moderate pressioni per estorcere informazioni ai fini della lotta al terrorismo. Nelle ultime settimane, dopo l’11 settembre, questa possibilità è emersa anche nelle parole di alcuni opinionisti americani che hanno ripristinato l’idea per cui, in condizioni particolari, la tortura potrebbe essere utilizzata per garantire la sicurezza, estorcere informazioni su possibili attentati e via dicendo. Questo, per fortuna, non è stato ripreso dal governo americano o da Bush. Il quale, in compenso, ha utilizzato come pretesto la lotta al terrorismo per introdurre misure particolari come i tribunali speciali piuttosto che la detenzione senza preavviso. Ci sono in carcere oggi più di 1.100 persone senza che se ne conoscano i motivi di detenzione e, addirittura, le carceri dove sono rinchiuse. Tendiamo a non fare statistiche sul ricorso alla tortura e crediamo che sia una situazione che riguardi la maggior parte, purtroppo, dei Paesi del mondo. Ovunque ha delle connotazioni diverse ma l’obiettivo è sempre lo stesso: annientare fisicamente la vittima, trasformare la vittima in un monito per la società, colpire la vittima e la società attraverso la vittima.
Citava l’Italia e la situazione difficile nelle carceri. Quanto la vostra attenzione si è concentrata su questa realtà dopo i fatti del carcere di Sassari dell’anno scorso?
Noi abbiamo, in realtà, sempre tenuto sotto controllo la situazione delle carceri in Italia, proprio perché c’è un fenomeno, che non scopriamo noi ma che è riconosciuto da numerose fonti, di sovraffollamento, di difficili condizioni, di arbitrio che a volte si verifica nei confronti dei detenuti da parte del personale. Da diversi anni chiediamo un’attenzione diversa da parte del governo sul tema delle carceri e recentemente abbiamo riconfermato la nostra richiesta di un organismo indipendente di controllo. A volte la tortura è praticata nelle carceri, altre volte, come i fatti di Genova hanno dimostrato, è praticata all’aria aperta.
Quali iniziative avete promosso dopo quello che è successo a Genova, dopo le testimonianze di molte persone che hanno denunciato di aver subito torture, sia nella caserma di Bolzaneto che altrove?
Dopo Genova abbiamo sostanzialmente rivolto una serie di appelli e una lettera al premier Berlusconi per ottenere chiarimenti. Abbiamo avviato una campagna nei confronti del governo italiano per chiedere che i responsabili degli abusi siano portati di fronte alla giustizia e sia fatta chiarezza sulle responsabilità che ci sono state nella gestione dell’ordine pubblico.
Come ha risposto il governo?
Non abbiamo avuto risposta. Peraltro, avevamo inviato una lettera al governo italiano per chiedere chiarimenti dopo i fatti del 17 marzo, sempre di quest’anno, durante il Global Forum di Napoli in cui si erano già verificati una serie di maltrattamenti. Dopo c’è stato Genova. Avevamo inviato precedentemente una lettera al ministro dell’Interno Scajola per chiedere attenzione riguardo alle procedure di sicurezza e al rispetto della libertà di espressione e di manifestazione. Così non è stato. Tutto si è aggravato con Genova e con i fatti di Ancona, perché Genova era solo una parte di un fenomeno più ampio, e oggi continuiamo a rivolgere al governo italiano la richiesta di istituzione di una commissione di inchiesta in grado di ricostruire quello che è successo e soprattutto di portare di fronte alla giustizia i responsabili.
Un bilancio della vostra campagna “Non sopportiamo la tortura”.
La campagna è partita nell’ottobre del 2000, proseguirà in Italia almeno fino a giugno, ma stiamo valutando l’opportunità di prolungarla ulteriormente. Sono tre gli obiettivi di questa campagna: 1) raccontare le storie delle vittime di tortura perché l’oblio, il dimenticare l’esistenza della tortura è già un primo modo per accettarne la perpetuazione; 2) introdurre dei sistemi di garanzia che consentano di portare di fronte alla legge i responsabili di tortura. In Italia, in particolare, stiamo cercando di promuovere l’introduzione del reato di tortura nel codice penale, ancora non esiste una fattispecie di reato specifica e crediamo che questa sia la priorità del Parlamento in materia di diritti umani, abbiamo rinnovato il 21 novembre con un’audizione alla Commissione straordinaria per i diritti umani del Senato la nostra richiesta, ci sono tre disegni di legge presentati e che attendono di essere discussi dalla Camera; 3) curare le vittime, soccorrere coloro che sono stati vittime di tortura e che hanno subito tale brutalità, per ridare loro una speranza. [F.P.]
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