Dossier. Contro l’archiviazione delle morti in carcere del marzo 2020

Dossier. Contro l’archiviazione delle morti in carcere del marzo 2020

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Materiali per saperne di più

Tra l’8 e il 9 marzo 2020 in molte carceri italiane sono scoppiate lotte e rivolte contro la disinformazione, l’abbandono, il rischio sanitario e le norme restrittive adottate dall’Amministrazione penitenziaria a causa della pandemia da Covid19.

Durante e dopo le rivolte e a seguito dei trasferimenti di molti detenuti, 13 di loro sono morti.

Si tratta della più immane tragedia avvenuta in carcere sotto il profilo della perdita di vite umane

9 di queste morti sono avvenute all’interno del carcere Sant’Anna di Modena. Le autopsie rivelano che la causa della morte sarebbe l’overdose dovuta a farmaci sottratti alle infermerie durante le lotte.

Ma le indagini effettuate non hanno fatto chiarezza – come documentato in questo dossier – né sulle ragioni per cui questi detenuti non sono stati tempestivamente soccorsi, né su se e come abbiano inciso gli episodi, da molti denunciati, di violenza e pestaggi ai danni dei detenuti durante e dopo la repressione della rivolta.

I noti fatti del carcere di Santa Maria Capua Vetere, le violenza e le torture ai danni di detenuti inermi, hanno recentemente acceso i riflettori su questo aspetto, rimasto a lungo sotto silenzio per media e magistratura, nonostante le tante denunce da parte di detenuti e loro familiari e di alcuni Garanti; è stata costituita una Commissione di inchiesta del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che riporterà alla luce anche le violenze contro i detenuti di Modena e altre carceri del marzo 2020.

Nonostante tutte queste ombre, nel giugno 2021 il tribunale di Modena decide l’archiviazione del procedimento per la morte di 8 detenuti del carcere Sant’Anna, sostenendo che non vi sia alcuna responsabilità dell’Amministrazione.

Ma questa archiviazione lascia troppe domande senza risposta.

La famiglia e la difesa di uno dei detenuti morti, Hafedh Chouchane, non rinunciano a cercare verità e giustizia, per Hafedh ma, in modo indiretto, per tutti i morti del marzo 2020.

Per questo, hanno deciso il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. È  un passo importante, perché non sia l’archiviazione l’ultima, scandalosa parola su questa e queste  morti.

Il Comitato per verità e giustizia sui morti in carcere del marzo 2020 sostiene questo ricorso, così come, dai giorni immediatamente seguenti queste morti, si è attivato perché su questa strage non calasse il silenzio.

 

Tutti i contributi che seguono sono pubblicati nelle newsletter del Comitato per la verità e la giustizia sulle morti in carcere,  Marzo 2020-Luglio 2021

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Hanno scritto o sono stati intervistati per la Newsletter del Comitato

Stefano Anastasia, Beppe Battaglia, Maria Brucale, Michelina Capato, Gianni Cavallini, Francesco Ceraudo, Samuele Ciambriello, Massimo Congiu, Franco Corleone, Elia De Caro, Alessandro De Pascale, Emanuele Ficara, Nicoletta Gandus, Alice Giannini, Angelo Giglio, Pietro Ioia, Francesco Lo Piccolo, Marcello Marighelli, Carmelo Musumeci, Moni Ovadia (video), Salvatore Palidda, Giulio Petrilli, Lorenza Pleuteri, Marco Purita, Susanna Ronconi, Paolo Rossi, (video), Gennaro Santoro, Vincenzo Scalia, Luca Sebastiani, Sergio Segio, Liviana Tosi, Stefano Vecchio, Grazia Zuffa

Coordinamento redazionale: Susanna Ronconi e Sergio Segio.


Comitato per la verità e la giustizia sulle morti in carcere

Dieci giorni dopo. L’appello, 17 marzo 2020

 

Tredici detenuti morti. Un numero inusitato, per giunta incerto, laddove alcuni quotidiani indicano quattordici. Numeri, neppure la dignità dei nomi, per la quale si sta adoperando il Garante nazionale dei diritti delle persone private di libertà.

 

Un numero impressionante, pur nell’eccezionalità delle circostanze in cui quelle morti si sono verificate. Viene in mente solo un unico altro episodio in qualche misura paragonabile: l’incendio nella sezione femminile del carcere torinese delle Vallette, avvenuto il 3 giugno 1989, nel quale rimasero uccise 9 recluse e 2 vigilatrici. Ma, oltre al numero, in quell’episodio furono almeno da subito chiare le cause, i media garantirono adeguate informazioni e approfondimenti, si arrivò a un processo penale. Della vicenda odierna, al contrario, colpisce l’informazione approssimativa su ciò che ha provocato quelle morti. Un’opacità mediatica e politica incomprensibile e ingiustificabile, anche tenuto nel debito conto l’emergenza sanitaria in corso con le gravi e impellenti problematiche che pone a tutti.

 

Il ministro della Giustizia, nella sua informativa al Parlamento sui disordini che hanno scosso numerose carceri provocando ingenti danni e feriti, ha sostanzialmente sorvolato sull’aspetto più grave, vale a dire l’ingente numero delle vittime tra i detenuti, le dinamiche che le hanno provocate, le eventuali responsabilità e differenze tra caso e caso. L’unico accenno al riguardo fatto dal ministro dà anzi adito alle peggiori ipotesi, laddove ha affermato che «le cause, dai primi rilievi, sembrano per lo più riconducibili all’abuso di sostanze sottratte alle infermerie durante i disordini», senza dettagliare i casi e senza minimamente chiarire quali siano le altre cause occorse oltre a quelle “per lo più” riferibili all’uso di sostanze. E in ogni caso, anche per le morti da farmaci, le domande sulle dinamiche del mancato soccorso durante la reazione alle rivolte e durante le traduzioni sono più che aperte.

Così pure il Guardasigilli non ha dato le necessarie risposte sui rischi per i reclusi e il personale di contagio da coronavirus nelle carceri chiarendo – o smentendo – quanto riportato da notizie di stampa, secondo cui si sarebbero già registrati alcuni casi, anche nel carcere di Modena, dove particolarmente si è accesa la protesta e dove è stato così alto il numero dei decessi. Essere rinchiusi in pochi metri affollati, privi di tutto, da chiunque non può che essere percepito come un rischio enorme per la propria incolumità, come del resto è noto che in carcere ogni malattia ha infinitamente maggiori probabilità di essere contratta. Anche per questo riteniamo fuorviante adombrare per le proteste supposti piani della criminalità organizzata, anziché, pur censurando le violenze, capire le ragioni di chi si è ribellato a una situazione che non è stata gestita, di fronte alla mancanza di misure per assicurare il diritto alla salute delle persone detenute, che deve essere tutelato alla pari di tutti gli altri cittadini e cittadine.

Da molto tempo il sistema penitenziario pare aver rinunciato a una visione costituzionalmente ancorata e orientata, divenendo sempre più solo un deposito di corpi, di disagio, di vite considerate “a perdere”. Appare evidente che la vita e l’incolumità di chi è recluso e reclusa sia l’ultima preoccupazione. Nel 2015-2016, il grande lavoro degli Stati generali dell’esecuzione penale, che ha fruito del generoso e qualificato impegno di centinaia di persone e suscitato ampie speranze, è stato alla fine frustrato e deluso per la scelta del governo pro tempore di rinunciare a varare le riforme allora messe a punto. Una scelta che è concausa della attuale drammatica situazione; riforme che andrebbero riprese e rapidamente varate, oltre a misure immediate di ridimensionamento del numero dei reclusi, quali quelle indicate da diverse associazioni in questi giorni.

A noi pare che la tragica morte di tredici persone detenute non possa essere rimossa e nascosta. Tutti coloro che vivono nel carcere, vi lavorano o lo frequentano, i famigliari e in generale la società e la pubblica opinione, hanno diritto di conoscere ciò che è successo nei dettagli. E di conoscerlo tempestivamente: poiché occorre avere consapevolezza di quanto l’opacità, la disinformazione, l’incertezza e la paura possano provocare in chi vive rinchiuso disperazione, la quale a sua volta può innescare nuovi conflitti.

Al contempo questa vicenda e lo stato generalizzato di profondo disagio e sofferenza delle carceri, che si è ora manifestato con ulteriore evidenza, vanno trasformati in occasione per ripensare la pena e la sua funzione e per riformare il sistema che la amministra.

In questa necessità e prospettiva, facciamo appello alle associazioni, al composito mondo del volontariato penitenziario, alla rete dei media sociali, ad avvocati e operatori del diritto, ai Garanti dei diritti delle persone private della libertà con cui per primi si intende collaborare dato il fondamentale ruolo, a tutti coloro che in modo singolo o organizzato sono impegnati in percorsi e culture improntate alla decarcerizzazione, al recupero sociale, alla depenalizzazione di condotte quali il consumo di droghe, alla tutela dei diritti umani e sociali, per costituire assieme un Comitato che lavori da subito alla raccolta di informazioni sulle vicende di questi giorni e che si proponga – nel rispetto ma anche nella sollecitazione delle competenze istituzionali – di fare piena chiarezza sull’accaduto.

Primi firmatari: Vittorio Agnoletto, Ascanio Celestini, Franco Corleone, Giuseppe De Marzo, Alessandro De Pascale, Monica Gallo, Nicoletta Gandus, Francesco Maisto, Bruno Mellano, Moni Ovadia, Livio Pepino, Marco Revelli, Susanna Ronconi, Paolo Rossi e la Compagnia teatrale dei “Fuorilegge di Versailles”, Sergio Segio, Stefano Vecchio, Grazia Zuffa.


 

Le adesioni, da marzo 2020 a marzo 2021,  sono 923.

L’elenco e la possibilità di firmare qui 


Chi sono i detenuti morti

I nomi dei detenuti morti a seguito delle lotte e delle rivolte del 7, 8 e 9 marzo 2020

Colpisce, ed è forse fatto inedito che, solo dopo molti giorni siano divenuti pubblici i nomi dei detenuti che sono morti durante le proteste o nel corso delle traduzioni ad altro carcere seguite alle proteste. Li ha finalmente resi noti il giornalista Luigi Ferrarella sul “Corriere della Sera” del 18 marzo. Sono rimasti a lungo fantasmi.

Sono: Marco Boattini, Salvatore Cuono Piscitelli, Slim Agrebi, Artur Iuzu, Hafedh Chouchane, Lofti Ben Masmia, Ali Bakili, Erial Ahmadi, Ante Culic, Carlo Samir Perez Alvarez, Haitem Kedri, Ghazi Hadidi, Abdellah Rouan.

Dare un nome a chi è morto dovrebbe essere il primo gesto per restituire dignità, per far uscire degli esseri umani dalla irrilevanza di essere solo un numero o una condizione, quella di anonimo detenuto.

Ora hanno finalmente un nome. Rimane da dargli verità e giustizia. Per farlo, cominciamo tutti assieme a raccogliere informazioni e a formulare domande, a pretendere risposte.


Un mese dopo. Da subito, troppi silenzi

COVID-19, morti in carcere. Basta con i silenzi!

Sono passate più di tre settimane dalla morte in diverse carceri italiane di 13 persone detenute a seguito delle proteste scaturite dalla mancanza di informazione e di gestione della crisi dovuta alla pandemia da COVID-19. Una protesta che, se pure ha avuto alcune espressioni violente, è stata portata avanti da diverse migliaia di reclusi/e, in assenza di una strategia di governo adeguata, capace di tutelare la vita, la salute e i diritti di chi è recluso.

13 persone a cui è stata negata persino l’identità, poiché solo dopo molti giorni si sono potuti conoscere i nomi.

13 persone la cui morte ha a tutt’oggi cause e dinamiche ignote: la sconcertante genericità delle dichiarazioni del Ministro Bonafede al Parlamento, subito dopo i fatti, non ha visto alcun successivo chiarimento, nessun aggiornamento su fatti, cause e responsabilità che sarebbero dovuti al paese e al Parlamento, oltre che ai famigliari delle vittime.

Da qui la pressante domanda di verità e trasparenza emersa dalla società civile e le iniziative del Garante Nazionale e dei garanti territoriali dei diritti delle persone detenute.

Come Comitato per la verità e la giustizia su queste morti in carcere – espressione di diversi mondi della società civile, dell’associazionismo, del diritto, della cultura – chiediamo con urgenza al Ministro della Giustizia Bonafede e ai vertici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di fornire al più presto informazioni e risposte esaustive e circostanziate:

– sulle cause di morte accertate per ognuna delle 13 persone decedute. Dopo tre settimane da fatti così eclatanti i risultati delle autopsie dovrebbero essere noti e disponibili;

– nel caso delle morti dovute all’assunzione di farmaci, informazioni dettagliate sui farmaci assunti e sulle modalità della loro appropriata custodia;

– quante morti siano avvenute nei luoghi della protesta e quante durante o a seguito delle traduzioni ad altro carcere dopo le proteste, dettagliando vittime, luoghi, circostanze e tempistica;

– se prima del trasferimento ad altro carcere i detenuti siano stati sottoposti a visita medica, anche considerando l’avvenuta sottrazione di farmaci dall’infermeria; se lo stesso sia avvenuto a destinazione raggiunta e quale sia la certificazione nel merito;

– se, nel caso delle morti correlate all’uso di farmaci, il personale penitenziario fosse formato al riconoscimento e al soccorso in caso di overdose e se vi fosse disponibilità, accesso e formazione all’uso dei farmaci salvavita.

 

Chiediamo al Ministro della Giustizia e al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di fare immediata e pubblica chiarezza; alle forze politiche e ai Parlamentari di esigere e di adoperarsi per un aggiornamento dettagliato sui fatti; ai media di presidiare l’informazione e la comunicazione su questa inammissibile tragedia

Newsletter N. 3, 2 aprile 2020


«Perlopiù» morti. 13 persone ridotte a cose

 di Sergio Segio

 

Mai come al tempo del Coronavirus è divenuto a tutti facile capire quanto siano fondamentali la sanità pubblica e la prevenzione: da un quarto di secolo viene invece falcidiata la prima e trascurata la seconda. Altrettanto determinante è l’informazione corretta e tempestiva sulla pandemia; tanto più in quel luogo scuro e separato che continua a essere il carcere. In queste settimane anche lì si è visto come errori, ritardi e sottovalutazioni producono disastri e perdita di vite.

Si è tornati indietro di decenni, con detenuti sui tetti e celle bruciate. Ma con la non piccola differenza, rispetto ad allora, che ben pochi si sono premurati di approfondire l’accaduto, ragionare sulle sue cause, chiedere spiegazioni ai poteri competenti (si fa per dire). Rese tanto più necessarie dalla morte di ben 13 persone detenute. La storia italiana (e non solo) della seconda metà del Novecento ci aveva insegnato come silenzi e bugie di Stato siano spesso la regola. Ma è forse la prima volta che, di fronte a fatti tanto gravi, opacità e reticenze di ministri e governi in carica non trovano significativa attenzione e opposizione.

Il ministro della Giustizia, informando il Parlamento, sul punto si è limitato a un inquietante inciso, sostenendo che i decessi «sembrano perlopiù riconducibili ad abuso di sostanze sottratte alle infermerie durante i disordini». Poche parole, all’incirca una per ogni morto, che non spiegano nulla e omettono tutto. Neppure un vago accenno alle altre cause, oltre a quella dichiarata principale.

Non un dettaglio, nessun chiarimento. Neppure lo sforzo di indicare i nomi: l’identità dei 13 solo dopo parecchi giorni sarà resa nota da un giornalista. Undici nordafricani, slavi, latinoamericani, due soli italiani. In qualche caso pene scontate quasi per intero, in altri ancora in attesa di giudizio. Chi sia morto per cosa, non è dato però sapere. Il ministro non dice e nessuno domanda. Le obiezioni più accese in Senato hanno piuttosto invocato maggior repressione, giungendo ad accusare il governo di voler «legalizzare la droga».

Come non fossero pubblici i dichiarati propositi del ministro dell’Interno attuale di mandarne ancora di più in galera per fatti di droga, in perfetta continuità di intenti con il suo predecessore. Quello dei tossicodipendenti in carcere, principale causa del sovraffollamento assieme al piccolo spaccio – come ben documenta il Libro Bianco sulle droghe, curato dalla Società della Ragione e altre associazioni –, continua a essere tema falsato e dolosamente omesso dal confronto politico.

Nessuna riflessione o interrogativo ha suscitato il fatto che così tanti detenuti siano morti perlopiù per l’assunzione smodata di metadone, un potente analgesico, sostituto di sintesi dell’eroina, usato a scopo terapeutico. Un farmaco che aiuta a superare le astinenze e attutisce dolore e sofferenze, che sono la condizione usuale e perenne del prigioniero, tossicodipendente o meno.

Pur in tempi assai difficili e luttuosi per la società libera, ci si sarebbe aspettati che la reazione, politica e amministrativa, di fronte all’inedita strage fosse appunto e semmai di provare a ridurre quella sofferenza, amplificata dai timori per l’epidemia e dalle misure di ulteriore isolamento imposte ai reclusi. Un isolamento ben diverso, integrale e spossessante, da quello cui siamo tutti costretti dal coronavirus: lì si è non solo reclusi ma ridotti a cose, distrattamente ammucchiate in una stanza.

Se il ministro omette, parla d’altro e guarda altrove, dal capo del DAP nulla è pervenuto. Assente non giustificato.

Di nuovo e sempre, tocca allora provare a costruire verità e giustizia dal basso. È quello che si propone il Comitato nato a questo scopo, che ha raggiunto 500 adesioni in due soli giorni (https://www.dirittiglobali.it/coronavirus-morti-carceri-appello/). Non sarà facile, ma occorre provarci.

Fonte: Sergio Segio, il manifesto

Newsletter N. 3, 2 aprile 2020


Tre mesi dopo. Il segreto dello Stato di Pulcinella

 a cura della redazione

 

Tre mesi non sono bastati al governo e, prima di tutto, al ministro competente per dare risposte a una tragedia che non ha precedenti: 13 detenuti morti nel giro di poche ore nel contesto di proteste, in alcuni casi degenerate in rivolte, che hanno coinvolto circa seimila reclusi e decine di istituti tra il 7 e il 10 marzo scorsi. Erano decenni che non si vedevano reclusi sui tetti e non si ha memoria di una strage di queste proporzioni nella storia delle carceri italiane.

Un fatto che, comunque lo si voglia vedere, è di una gravità assoluta e inaudita. Complice la pandemia, o forse un’ormai compiuta mitridatizzazione alle tossine securitarie e al populismo penale affermatosi già dall’ultimo decennio del secolo scorso, il fatto non ha destato né interesse né, tantomeno, scandalo nella opinione pubblica, invece prontamente accesosi – al solito, sapientemente attizzato dai media e dalle forze politiche di governo e di opposizione – per la scarcerazione di pochi, anziani, malati e a fine pena condannati per fatti di criminalità organizzata. Nemmeno poteva dunque farlo la latitanza della responsabilità politica nel fare chiarezza e nel dare conto dell’accaduto.

Un conto, peraltro, e anche questo ha pesato, da quasi nessuno richiesto. Né a livello sociale, né in quello parlamentare, dove, evidentemente, le sensibilità garantiste sono da tempo quasi scomparse.

Solo due deputati hanno infatti ritenuto di interrogare urgentemente il ministro di Giustizia per conoscere «quali siano le cause della morte per ognuna delle 13 persone decedute, come accertate dalle autopsie, e nello specifico, ove la morte sia dovuta all’assunzione di farmaci, quali farmaci siano stati assunti e se fossero opportunamente custoditi; quante morti siano avvenute nei luoghi della protesta e quante durante o a seguito delle traduzioni ad altro carcere, dettagliando luoghi, circostanze e tempistica; se prima del trasferimento ad altro carcere i detenuti siano stati sottoposti a visita medica, anche in considerazione dell’avvenuta sottrazione di farmaci dall’infermeria».

A ridosso degli avvenimenti, in un’informativa alle Camere, l’11 marzo il Guardasigilli aveva già sostanzialmente eluso la questione, dedicando alla strage e alle sue cause poche e ambigue parole: «Il bilancio complessivo di queste rivolte è di oltre 40 feriti della polizia penitenziaria, a cui va tutta la mia vicinanza e l’augurio di pronta guarigione, e purtroppo di 12 morti tra i detenuti, per cause che, dai primi rilievi, sembrano per lo più riconducibili all’abuso di sostanze sottratte alle infermerie durante i disordini». Punto. Nessun dettaglio, neppure il nome delle vittime, la loro posizione giuridica, la pregressa condizione di salute, l’eventuale tossicodipendenza.

A non voler pensare male, privandosi così della possibilità di indovinare, la vicinanza temporale dei fatti poteva forse giustificare l’insufficienza e genericità di quelle dichiarazioni, così come ogni mancata obiezione o reazione da parte dei parlamentari cui erano destinate.

Ma, come accade spesso in materia fiscale, all’elusione si è accompagnata l’evasione, giacché il 9 aprile scorso, in sede di risposta all’interpellanza dei due deputati, il ministro Bonafede ha ritenuto di non presentarsi, delegando un sottosegretario non già alla Giustizia, bensì all’Istruzione.

Le cui risposte sono davvero capaci di renderci edotti dell’opacità di chi amministra le carceri e il potere. Come verificabile dal documento integrale qui sotto riprodotto, le risposte del sottosegretario delegato, Giuseppe De Cristofaro di Sinistra Italiana, sono un capolavoro di non detti. Sul punto della strage, di nuovo poche e vuote parole e, soprattutto, il comodo rifugio del segreto: «Tutti i dettagli e le informazioni contenute negli atti trasmessi alle procure della Repubblica costituiscono fatti coperti dal segreto investigativo e ovviamente non possono essere disvelati. Allo stesso modo, non sono disponibili gli esiti delle autopsie, effettuate su disposizione dell’autorità giudiziaria, che, all’esito dei percorsi di indagine, potrà valutare la desecretazione degli atti che sono stati compiuti».

Che sia ovvio che un parlamento non possa conoscere i dettagli e le informazioni su una strage di proporzioni inedite, pur senza inficiare e anzi per sostenere le indagini in corso, non è forse così comprensibile per il senso comune, ma è certo, e di nuovo, istruttivo. Nemmeno lo è la necessità di tenere nascosto l’esito delle autopsie da parte delle competenti procure, tanto più tenuto presente che le stesse si sono premurate di diffondere dichiarazioni a pochi giorni dai fatti, secondo le quali, relativamente a cinque casi esaminati, «il primo esame da parte del consulente incaricato ha riscontrato l’assenza, nel meccanismo causale dei cinque decessi, di fattori riconducibili a lesioni da azioni traumatiche. Sono stati effettuati i prelievi di liquidi biologici e di tessuti per i necessari approfondimenti chimico-tossicologici mirati a verificare l’ipotesi più plausibile, che si conferma essere quella di natura tossicologica».

Se per il ministro, l’11 marzo, le morti «sembrano per lo più riconducibili all’abuso di sostanze», il 15 marzo per il procuratore «l’ipotesi più plausibile si conferma essere quella di natura tossicologica». Nonostante le autopsie preliminari, insomma, siamo ancora nel campo delle supposizioni, anzi dell’unica già accreditata a poche ore dalla strage dalle relazioni di servizio del personale dalle quali emergeva, come riferisce il sottosegretario, «che in tutti i casi numerosi detenuti, una volta armatisi e usciti dalle sezioni di provenienza, si erano recati presso l’infermeria e l’avevano saccheggiata, scardinando porte, armadietti, impadronendosi del metadone custodito in un mobile blindato e facendo uso di tutti i farmaci presenti».

Rimane così insoluta e ancor più motivata la domanda sul perché, se sono stati da subito evidenti le cause di morte e gli abusi di farmaci saccheggiati, molti reclusi (in totale 1600, dice il sottosegretario delegato) siano stati immediatamente trasferiti, così che quattro di loro sono deceduti lungo il viaggio o nel carcere di destinazione. E nonostante che sempre il sottosegretario affermi, citando la relazione del personale sanitario della casa circondariale di Modena – per inciso quella dove è avvenuto il maggior numero delle morti e da cui sono stati spostati il giorno successivo i quattro, per un totale di nove deceduti –, «i detenuti, prima del trasferimento, sono stati sottoposti a controllo medico da parte del personale sanitario del carcere o dei medici del 118».

Questa è l’unica vera informazione sul punto contenuta nella risposta all’interrogazione. Un’informazione che, per essere davvero tale, andrebbe però raccolta e approfondita da chi ne ha il potere e il dovere, dai Garanti e magari anche da quei media così rocciosamente distratti e silenti su questa vicenda.

Delle due l’una. O ciò non è vero e non è stato accertato lo stato di salute e di eventuale intossicazione dei quattro trasferiti (trasferiti dopo che altri reclusi erano deceduti e per i quali era già stata ipotizzata l’intossicazione da farmaci, è bene rimarcare) o le cause di morte sono diverse.

Così dice il ragionamento. Cosa dica il ministero e le autorità competenti, nonché tutti coloro che hanno titolo e poteri di pretendere e raccogliere informazioni, a distanza di oltre tre mesi non è ancora dato sapere.

Newsletter N. 11, 10 giugno 2020


7 mesi dopo, tutte le domande senza risposta

 Ricapitoliamo

A distanza di tanti mesi – segnati da silenzi e opacità istituzionali –  dalla morte di 13 persone detenute, un fatto di gravità inedita nella storia penitenziaria italiana, e riprendendo la pubblicazione della Newsletter del Comitato che chiede Verità e Giustizia per quelle morti, è opportuno provare a fare il punto.

Le 13 persone detenute decedute durante le proteste del marzo 2020 hanno trovato la morte in situazioni diverse.

Nelle celle del carcere di Modena sono morti in 5: Hafedh Chouchane, Lofti Ben Masmia, Ali Bakili, Erial Ahmadi, Slim Agrebi

Nel carcere di Bologna è morto Haitem Kedri,

In quello di Rieti sono morti in 3: Marco Boattini, Ante Culic e Carlo Samir Perez Alvarez.

Dopo o durante il trasferimento da Modena sono morti altri 4 detenuti: ad Alessandria Abdellah Rouan, a Verona (in transito verso Trento) Ghazi Hadidi, a Parma Arthur Isuzu, a Ascoli Piceno Sasà Piscitelli

 

Cosa si sa, a oggi, delle cause di queste morti?

Sono noti gli esiti di alcune autopsie.

A metà agosto, l’esame condotto da Enrico Silingardi di Medicina legale sui 5 detenuti morti tra le mura del carcere di Modena e consegnato alla Procura afferma che la morte è avvenuta per overdose da farmaci e metadone e che non vi è evidenza di lesioni o percosse.

A Bologna, la pm Manuela Cavallo in luglio chiede l’archiviazione per la morte da overdose da farmaci di Haitem Kedri.

Per 3 dei 4 deceduti dopo o durante il trasferimento non si hanno ancora notizie, il procuratore aggiunto di Modena, Giuseppe Di Giorgio, dichiara che sono in corso indagini; per Sasà Piscitelli, morto nel carcere di Ascoli dopo il trasferimento, procede la procura locale, a oggi è stato depositato l’esito dell’autopsia che è al vaglio della Procura.

 

Cosa si continua a non sapere?

Noi tutti siamo in attesa di poter accedere alle informazioni dettagliate dalle autopsie: per esempio, quali sostanze? e in che dosaggi? Domande necessarie a capire se e come un episodio di overdose è stato fatale

Ma soprattutto le domande riguardano la dinamica dentro cui queste morti sono avvenute.

L’omesso soccorso: perché non sono stati tempestivamente soccorse le persone, dato che per i 5 morti di Modena e per quello di Bologna, almeno, si dà per accertato l’overdose? Perché non è stato fatto, anche considerando che la morte per overdose da metadone e da psicofarmaci non è immediata, ma richiede un certo tempo?

La violazione di ogni protocollo per quanto concerne i trasferimenti: perché i detenuti sono stati messi su un blindato, per ore, senza una visita medica che ne accertasse l’idoneità al trasferimento? Perché durante il viaggio, di fronte a sintomi evidenti, non si è provveduto tempestivamente al soccorso, aspettando invece che si compisse l’inevitabile?

Perché alcuni sono morti a molte ore dai fatti, senza che nessuno – agenti, medici, operatori – prestasse attenzione alle loro condizioni e intervenisse?

Infine, il metadone che sarebbe stato assunto dai detenuti era custodito secondo quanto prescrivono i protocolli? Com’è stato possibile averne così facile accesso?

Come si inseriscono in queste indagini le numerose denunce di pestaggi e violenze da parte degli agenti avvenuti durante e dopo le rivolte?

Già in aprile davamo le prime notizie di pestaggi e violenza ai danni dei detenuti a Modena, grazie a lettere e informazioni pervenute al Comitato da alcuni famigliari (vedi Newsletter n. 4), nelle settimane successive si sono moltiplicate denunce e anche esposti formali da parte di persone detenute, provenienti da tutte le carceri coinvolte nelle lotte e raccolte da associazioni, Garanti e media (sulla pagina Facebook del Comitato tutti gli aggiornamenti).

È necessario che la magistratura avvii e conduca indagini serie e approfondite sulle violenze ai danni dei detenuti nei casi segnalati, e soprattutto sul carcere di Modena, perché la verità su come sono state condotte le operazioni di controllo, contenimento e repressione delle rivolte e le seguenti fasi di “ristabilimento dell’ordine”, è una variabile fondamentale e non eludibile del contesto in cui queste 13 morti sono avvenute.

 La morte di Sasà

La morte di Sasà Piscitelli, nel carcere di Ascoli, dopo la traduzione da Modena, è emblematica di tutte le 13 morti e di tutte le domande che restano ancora senza risposta: l’evidente mancanza di una visita medica prima del trasferimento; una lunghissima traduzione senza che nessuno prestasse attenzione alla sua condizione; l’arrivo al carcere di Ascoli evidentemente senza una visita medica (oppure, qualora effettuata, la totale e colpevole irresponsabilità di medici e agenti); a detta della denuncia di compagni di detenzione, un trattamento violento al suo arrivo in cella e il suo essere lasciato privo di sensi senza che nessuno gli prestasse soccorso.

I risultati dell’autopsia sono stati depositati in agosto, come sta procedendo la procura di Ascoli? E come si stanno coordinando queste indagini con la procura di Modena, dato che da lì tutto è cominciato?

Ricapitoliamo. E impediamo silenzi e facili archiviazioni

Le domande su cui pretendere risposte chiamano in causa la magistratura inquirente, che deve alzare lo sguardo al contesto in cui queste morti sono avvenute e alle dinamiche specifiche di ogni morte. Chiamano in causa l’Amministrazione penitenziaria e configurano responsabilità gravi, nonché la violazione di diritti fondamentali quali quello alla vita, alla salute e alla sicurezza di chi è recluso. E possono configurare anche reati gravi, qualora l’accertamento della verità dei fatti confermasse il totale disprezzo, che emerge ormai da più fonti, dei protocolli posti a tutela della salute e della incolumità di chi è detenuto.

Queste 13 morti non sono archiviabili con un “se la sono cercata”, e l’overdose, qualora confermata, non può essere ritenuta la sola causa. La verità va cercata anche nelle responsabilità di chi, per propria competenza, deve garantire la vita di coloro che sono sotto la sua custodia.

Newsletter N. 15, 6 ottobre


10 mesi dopo, Dieci lunghi mesi

di Sergio Segio

Ci sono voluti oltre dieci mesi. Più di quaranta lunghe e strane settimane, di questo periodo così difficile per tutti e non ancora alle spalle. Periodo nel quale, volendo, tutti avrebbero potuto provare a immaginare cosa dev’essere vivere settimane, mesi, anni e addirittura decenni in un lockdown totale e permanente, in spazi angusti e ostili, senza socialità, né svago o diversivi, persino privati della possibilità di vedere i propri cari, costantemente sottoposti a frustrazione e impotenza, talvolta a rabbia e violenza.

Certo, è difficile immedesimarsi, anche perché occorrerebbe prima separarsi dai propri pregiudizi, dalla facile scappatoia morale: «se la sono cercata». Se però ci si riuscisse, si guarderebbe forse con altri occhi al mondo del carcere e anche alle proteste che nel marzo scorso hanno scosso le prigioni, devastandone in particolare una, quella di Modena, e lasciando un perdurante strascico di conseguenze, sofferenze, condanne, processi: il 18 gennaio è cominciato a Milano quello che vede imputati 22 detenuti accusati di resistenza, lesioni e incendio che in quei giorni si trovavano nel carcere di Opera.

Nessun processo è stato – per il momento – istruito e definito per la vicenda più grave di quei giorni: la morte di ben 13 persone recluse. Più grave pensiamo e diciamo noi, ma non pochi, diversamente, sembrano considerare tale la distruzione di arredi e cancelli.

Cosa c’è stato dietro le rivolte

Si è trattato di una vera e propria strage, subito attribuita «perlopiù» all’abuso di metadone e psicofarmaci e immediatamente rimossa dall’attenzione pubblica. Anche in quel caso molti avranno pensato: «se la sono cercata». Alcuni, per la verità, lo hanno pure detto o scritto. Nessuno si è soffermato a riflettere su cosa stia a indicare il fatto che nelle rivolte di quaranta o cinquanta anni fa gli insorti cercavano di arrivare all’armeria delle prigioni, mentre in questo caso l’assalto è stato dato alle infermerie, come ha osservato il solo Franco Corleone.

Innescata dalla paura del contagio, nella penuria di informazione, e dall’ansia per i parenti all’esterno, con i colloqui sospesi senza troppe spiegazioni, la preoccupazione nelle celle si è tradotta in rivolta. Tesa non tanto a fuggire, quanto, appunto, a ricercare calmanti chimici per lenire o stordire quell’unica dimensione in cui sono costretti a vivere i reclusi: la sofferenza e la disperazione. Senza più sbocchi e illusioni, dopo l’ultima beffa dell’annoso lavoro degli Stati generali sull’esecuzione penitenziaria, e delle proposte riformatrici scaturitene, buttati nella spazzatura dalla pavidità dei governanti di allora.

Così la strage del marzo 2020 è stata rapidamente archiviata, con le tante ombre, le contraddizioni, le omissioni, le lacunose e risibili versioni ufficiali.

Il muro di gomma e i segreti di Stato

Ora, dieci mesi dopo, pare aprirsi qualche piccola crepa in quel muro di gomma e di indifferenza. Media importanti come il quotidiano “la Repubblica” e la trasmissione “Report” della RAI e, prima di loro, il quotidiano “Domani” e prima ancora l’agenzia AGI, hanno finalmente dedicato inchieste e commenti agli avvenimenti di marzo. Per contribuire a determinare questa novità c’è voluta la determinazione e la costanza di singole persone aggregatesi in un “Comitato per la verità e la giustizia sulle morti in carcere” e di quanti hanno continuato a porre domande scomode e a sollecitare risposte, a cercare testimonianze, a raccogliere informazioni: blog e siti web indipendenti, giornalisti free lance, gruppi locali di attivisti, alcuni piccoli giornali, qualche avvocato. Sono stati loro, siamo stati noi, a tenere aperta e a sollecitare la possibilità che si rompesse almeno un anello della catena di silenzi, omertà, inadempienze, prudenze.

Quel che più colpisce di questa tragica vicenda, tutto sommato, non è tanto la rocciosa indisponibilità delle istituzioni e dello Stato, delle forze politiche e del governo di ricostruire l’accaduto (va sottolineato, visto che si finge di nulla: di inedita gravità nella storia delle carceri repubblicane, se non altro nella numerosità delle vittime), di attribuire – e di assumersi – le responsabilità, di chiamare a rispondere. Insomma, di fare chiarezza e promuovere giustizia.

La storia di questo paese è, difatti, densa di segreti di Stato e di armadi della vergogna. L’impunità è una costante nella storia delle classi dominanti. L’omertà è un collante bipartisan che garantisce la stabilità e la continuità del sistema e dei suoi apparati. Nulla di nuovo, dunque e purtroppo, pur se in altre epoche storiche, anche non troppo distanti temporalmente, erano stati sicuramente maggiori i contrappesi e le resistenze: in parlamento, nella società, nei media, nelle professioni, nelle associazioni. Sia pure in aree minoritarie e circoscritte, è sempre esistita la capacità, civile e democratica, di chiedere conto e qualche sporadica volta persino di ottenerlo.

Le prudenze, i silenzi e le omissioni

In questa vicenda, invece, spicca l’assenza o l’eccesso di prudenza di molti dei soggetti e delle realtà che, consuetamente, si sono spesi e si spendono in battaglie di garanzia, trasparenza e diritto. Non può non suscitare interrogativi, ad esempio, la sostanziale mancanza di iniziative specifiche e mirate da parte di chi pure avrebbe il dovere e anche qualche potere di adoperarsi: in primis i garanti dei diritti delle persone private della libertà competenti territorialmente rispetto agli avvenimenti e ai diversi luoghi, città e regioni, in cui sono avvenuti le violenze e i decessi.

Per dirne solo una: l’esposto dei cinque detenuti che ha riaperto il discorso e costretto i magistrati a riprendere attività di inchiesta, tra le tante cose, mette in evidenza, nero su bianco, quel che era già chiaro a chiunque volesse vedere e capire: l’omissione o la superficialità – sempre non vi sia stata addirittura falsificazione di documenti – nei controlli medici, in partenza e in arrivo, sui detenuti trasferiti da Modena e dalle altre carceri. I Garanti avevano la facoltà di richiedere la relativa documentazione, una richiesta che sembrerebbe scontata di fronte alla gravità degli eventi. Non risulta lo abbiano fatto, né tanto meno resi noti i risultati.

Come sempre, e per fortuna, vi sono state preziose eccezioni. Una molto puntuale e incidente è stata la presenza e iniziativa del Garante regionale della Campania, Samuele Ciambriello e di quello di Napoli, Pietro Ioia, riguardo episodi – diversi ma pure simili – come il pestaggio di massa, le torture e le spedizioni punitive a danno dei detenuti di Santa Maria Capua Vetere dopo che questi avevano fatto una protesta all’inizio dello scorso aprile. “La mattanza della Settimana Santa” l’ha definita la locale procura, che ha messo sotto accusa ben 144 agenti della polizia penitenziaria: per una volta i professionisti della minimizzazione avranno qualche difficoltà a parlare di singole “mele marce”. Un episodio che per dinamica ed estensione ricorda il massacro di San Sebastiano, avvenuto a Sassari dell’aprile 2000, con decine di detenuti percossi a sangue per giorni.

Il coraggio della denuncia

È significativo, e anche triste, che ora la riapertura dell’attenzione dei media e dei magistrati sulla strage di dieci mesi fa sia avvenuta solo grazie all’anello più debole ed esposto: i reclusi stessi. Già vittime di violenza, facilmente minacciabili, ricattabili e soggetti a pressioni, dirette e indirette. Come quella di riportarli inizialmente nello stesso carcere di Modena in cui hanno denunciato di aver subito pestaggi, loro e i loro compagni, compresi quelli poi deceduti.

Nel frattempo, vi erano state tre sole interrogazioni parlamentari, di cui due rimaste senza risposta, mentre alla prima, quella dell’on. Magi, è stato dato un riscontro puramente formale, evasivo nel merito e totalmente insoddisfacente nei contenuti.

La cappa del silenzio, evidentemente, ha funzionato in un gioco di specchi e di reciprocità negative: la rinuncia a indagare da parte dei media ha indotto e consentito alla politica e alle istituzioni di tacere e di voltarsi da un’altra parte. Il disinteresse dei due poteri, in qualche modo, ha condizionato anche quelle forze, associazioni, singole e autorevoli personalità consuetamente più reattive quando sono chiamati in causa i diritti umani e quelli dei reclusi. Associazioni e personalità che in questi mesi si sono impegnati – giustamente e utilmente – per promuovere misure deflattive anti-Covid e perché sia garantita anche ai detenuti la priorità nelle vaccinazioni, ma che quasi mai hanno preso parola e posizione riguardo la strage e l’occultamento della verità.

Forse anche loro messi in mora e in soggezione dalla subitanea – e priva di riscontri – versione di potenti e ascoltati procuratori antimafia, propagandata e amplificata da tutti i media, che attribuiva la regia delle rivolte alla criminalità organizzata e che è arrivata a costringere alle dimissioni l’allora capo dell’Amministrazione Penitenziaria Francesco Basentini. Una campagna politico-mediatica che ha contribuito al silenzio e alla rimozione della vera e tragica notizia di quei giorni, vale a dire l’eccidio di detenuti.

I pochi spiragli aperti dal coraggio dei detenuti che hanno mandato ai magistrati l’esposto e dal soprassalto di attenzione di alcuni media, naturalmente, rischiano presto di chiudersi se non si metterà in moto una più vasta capacità di pressione politica, di denuncia e sensibilizzazione.

Si avvicina l’anniversario della strage. È una buona – forse l’ultima – occasione per allargare le poche crepe aperte e fare finalmente crollare il muro della vergogna. Per ottenere quella verità e giustizia indispensabili a confermare una fiducia nella democrazia e nello Stato di diritto che è stata pericolosamente indebolita.

A questo stiamo lavorando.

Newsletter N. 20, 25 gennaio 2021


Morti in carcere e rivolte. Le novità, i dubbi

di Lorenza Pleuteri *

 

Le nuove carte e i documenti inediti pubblicati dal quotidiano “la Repubblica” (il dossier multimediale integrale è visibile nell’edizione online, riservato però ai soli abbondati) ha portato alla luce altre tessere fondamentali del puzzle da ricomporre per sapere che cosa è successo a marzo 2020 nelle patrie galere e come e perché tredici detenuti sono morti durante e dopo le rivolte. La trasmissione “Report” della RAI ha rilanciato. E altri interrogativi, tasselli che non entrano più nel quadro tratteggiato inizialmente, si sono aggiunti alle troppe domande rimaste senza risposta dopo dieci mesi e mezzo di indagini (a Bologna carenti, come dimostra il fascicolo depositato dal GIP) e di interrogazioni parlamentari cadute nel vuoto.

 L’uso delle armi

In questi mesi “solo” alcuni detenuti di Modena e alcuni familiari hanno parlato di uso delle armi, da parte della polizia penitenziaria o forse anche di altre forze di polizia, e hanno portato come “prova” l’audio di un filmato girato fuori dal carcere emiliano durante le fasi più critiche della violenta sommossa (www.youtube.com/watch?v=auzr2B0435I&t=108s , minuto 1.36, sempre che non sia una porta di ferro che sbatte). Alle armi non avevano invece fatto alcun cenno, nelle prime comunicazioni al Parlamento, né il ministro di Giustizia Alfonso Bonafede né l’allora direttore del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Francesco Basentini. Perché? Si temeva che qualcuno avrebbe sollevato obiezioni o chiesto approfondimenti? O si pensava che si stabilisse una correlazione con i decessi, come hanno fatto gli anarchici, sebbene l’esame dei cadaveri e le autopsie avessero escluso ferite e lesioni? Si è taciuto il “dettaglio”. Eppure, la possibilità di ricorrere alle armi è ammessa dall’ordinamento penitenziario, in specifiche e limitate situazioni (ad esempio per sventare tentativi di fuga). Ora si apprende che nelle relazioni di servizio del personale del carcere, inoltrate al DAP e quindi a conoscenza di referenti politici e amministrativi, non è stato possibile omettere questo “particolare”. I rapporti parlano di «colpi sparati in aria» per evitare una evasione di massa. Anche l’uso della forza fisica è ammesso, sempre in casi estremi. E qui un attento ed equilibrato dirigente sindacale, Gennarino De Fazio, responsabile nazionale della Uilpa, fa un lapsus, tremendo. In una dichiarazione all’agenzia AGI, ripresa dalla “Gazzetta di Modena”, dice «violenza», come se fosse un sinonimo di forza e non un andare oltre. «Mi sento di escludere – affermazioni sue, mai rettificate – che ci sia stata violenza senza motivo. Parliamo di un istituto penitenziario incendiato e devastato, sono stati divelti cancelli e tentata un’evasione di massa. Immagino ci siano state delle perquisizioni accurate perché alcuni avevano armi rudimentali od oggetti da taglio e che quindi si sia dovuto ricorrere anche al denudamento di qualche detenuto. Teniamo presente che si tratta di un carcere col 152% di sovraffollamento, la capienza regolamentare è di 369 detenuti, ce n’erano 560 in quel momento. Solo questa segna il livello di accuratezza della gestione all’interno del penitenziario. In quel contesto, se c’è stata violenza la possiamo definire “legittima” perché serviva per ripristinare l’ordine, evitare evasioni ed eventuali soprusi di detenuti sui loro compagni».

 Chi stava male consegnato agli agenti

Almeno due detenuti di Modena che stavano male – e che ci hanno rimesso la vita – sono stati affidati alla polpenitenziaria da altri reclusi. Erano già morti? O si potevano salvare, come è successo con i reclusi assistiti e portati in ospedale? Sono stati picchiati, anche loro, se è vero quel che ha detto un loro compagno in TV? Nei rapporti di servizio su Slim Agredi, quarantenne tunisino in attesa di giudizio, c’è scritto: «Dopo aver assunto imprecisati quantitativi di metadone con altri detenuti della sezione, perde conoscenza. Alcuni dei presenti tentano di rianimarlo, prima di portarlo al piano terra e consegnarlo al personale della polizia penitenziaria».

Per Chouchane Hafdeh, un connazionale di 36 anni, prossimo a uscire per fine pena, le indicazioni sono simili: «Dopo aver assunto quantitativi di metadone perde conoscenza. Altri detenuti tentano di rianimarlo prima di portarlo al piano terra e consegnarlo al personale di polizia penitenziaria». Le due consulenti della procura di Modena dopo l’autopsia confermano che l’uomo – l’orario e il luogo preciso ancora non si conoscono – è morto per edema polmonare acuto, con insufficienza respiratoria, presumibilmente provocato da una intossicazione da metadone.

«Si dice che detenuti ignoti – rileva l’avvocato dei familiari, Luca Sebastiani – hanno consegnato Hafedh agli agenti della polizia penitenziaria, che a loro volta lo hanno affidato ai sanitari. I reclusi non erano mascherati eppure sono rimasti ignoti, come se fosse impossibile riconoscerli. Dai pochi atti che girano – ipotizza il legale – non sembra che sia proceduto alla loro identificazione, seppur necessaria ai fini investigativi. Invece andavano individuati e sentiti a verbale, per ricostruire meglio l’accaduto e anche dal loro punto di vista, fondamentale». La procura di Modena – per ammissione del procuratore reggente, Giuseppe di Giorgio – non ha chiesto neppure di procedere all’identificazione dei reclusi che viaggiarono assieme ai quattro compagni di Modena morti durante o dopo il trasferimento ad Ascoli, Parma, Alessandria, Verona. Sono stati sentiti a verbale unicamente i cinque ragazzi che a fine novembre hanno firmato un esposto per denunciare spari, pestaggi, abusi e l’omissione di soccorso di Salvatore “Sasà” Piscitelli, un pesantissimo atto di accusa per cui si cercano riscontri o smentite. Gli investigatori della squadra Mobile non sono riusciti a identificare i due stranieri che in estate hanno mandato lettere a due giornaliste, con testimonianze altrettanto inquietanti. Troppo complicato? I compagni di viaggio erano appena 40, non 400, e i non italiani ancora di meno. «Se e quando arriveranno altre segnalazioni – promette Di Giorgio – le approfondiremo e convocheremo chi le ha scritte. Già subito dopo la rivolta – ricorda – erano pervenute due denunce su presunti maltrattamenti, prese accuratamente in considerazione».

 Il rimpallo del fascicolo

Il fascicolo sulla morte di Sasà Piscitelli inizialmente era stato aperto ad Ascoli, dove il quarantenne saronnese era spirato, in ospedale (secondo la direzione del carcere e il provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria) oppure in cella (secondo i compagni, nessuno dei quali però ha competenze mediche). La procura di Ascoli, disposta l’autopsia, mesi dopo ha mandato gli atti alla procura di Modena, ipotizzando che le cause del decesso andassero cercate a monte e quindi durante la rivolta (spaccio di metadone e psicofarmaci, pare di capire). I cinque autori dell’esposto hanno scritto alla procura generale di Ancona (competente anche per Ascoli) e qui di nuovo si è ritenuto che la competenza fosse modenese. Il rimpallo è continuato. I sette fogli compilati dai denunciati sono stati spediti nella cittadina emiliana. Il procuratore reggente e le due PM titolari delle indagini su rivolte e decessi – tutte al momento contro ignoti – hanno sentito a verbale i sottoscrittori della denuncia e poi ripassato la palla ad Ascoli. «Secondo noi – accenna il procuratore reggente. Di Giorgio – le gravi condotte segnalate dai detenuti potrebbero essere avvenute lì e aver causato il decesso, cosa che è tutta da verificare, a fronte di dichiarazioni contrastanti. Speriamo che non ci rimandino di nuovo indietro il fascicolo». Non è dato sapere se il via vai di carte e inchieste riguardi anche le tre vittime di Parma, Alessandria e Verona. Queste persone sono state trattate con correttezza e adeguatamente assistite? Le hanno visitate, prima di spostarle? O c’è da andare a fondo, come per Sasà? Su di loro non si sa ancora nulla, se non il nome, l’età, l’origine, la posizione giuridica.

 «Indagini carenti e lacunose»

“la Repubblica” ha avuto accesso alle carte dell’inchiesta sulla morte di Haitem Kedri, gli atti depositati dalla PM Manuela Cavallo assieme alla richiesta di archiviazione del fascicolo, aperto e chiuso contro ignoti, per il reato di morte come conseguenza di altro delitto (mai specificato dalla magistrata). L’uomo è stato trovato senza vita in una cella del carcere di Bologna, la mattina dopo la fine della rivolta e il saccheggio degli armadi con gli psicofarmaci. Nel plico all’esame del GIP Alberto Gamberini – meno di 200 pagine – ci sono l’autopsia, il diario clinico dell’uomo, le relazioni di servizio della polpenitenziaria, la testimonianza del compagno di cella e poco altro. Si nota più quello che manca. La sostituta procuratrice si è limitata a disporre i rilevi nella stanza del decesso, affidandoli agli stessi agenti del carcere e non a una forza di polizia esterna, e a disporre la perquisizione della stanza. Sono saltate fuori 103 pasticche, troppo tardi. La PM non ha ritenuto di far convocare e sentire i medici di servizio nella casa circondariale e il collega del 118 che ha constatato il decesso, firmando la certificazione con uno sgorbio. Non sono stati identificati i detenuti che andarono a chiedere di Kedri. Ai poliziotti e al personale sanitario nessuno ha formalmente chiesto perché la cella piena di pillole letali non venne perquisita prima (se così è stato, perché manco la direttrice lo sa), a fronte della razzia di medicinali pesanti. Non si sono fatti approfondimenti sulle linee guida regionali che disciplinano la custodia di psicofarmaci e metadone. E non si è andati a vedere perché Kedri non sia stato visitato dopo la rivolta e il saccheggio di flaconi e pillole, nonostante fosse un soggetto con non pochi problemi e a rischio medio di suicidio. Lo ha stroncato un mix di metadone e medicinali strong, in parte previsti dalla terapia che seguiva e in parte rubati, probabilmente nemmeno da lui. Il medico legale che ha effettuato l’autopsia esclude azioni dolose, propende per una dinamica accidentale, arriva a non escludere il suicidio. Però un mese prima, è annotato nel diario clinico, il detenuto «era sereno e disponibile al dialogo» e giurava di non avere alcuna intenzione di togliersi la vita, monitorato da una psicologa. La salma, diversamente da altre, non è stata cremata. È finita in un piccolo cimitero. L’ufficio del Garante nazionale dei detenuti, che per tempo si era dichiarato persona offesa, non ha ricevuto l’avviso della fissazione dell’autopsia ed è rimasto tagliato fuori. A luglio, attraverso un legale, si è opposto alla richiesta di archiviazione. Le indagini sulla fine tragica di Kedri – sottolinea la memoria allegata agli atti – sono state carenti e lacunose e l’ipotesi del suicidio non è avvalorata da verifiche mirate.

Le scelte del garante

L’ufficio nazionale del Garante dei detenuti si è dichiarato persona offesa in tutti i procedimenti aperti. Non ha avuto il tempo o il modo di nominare un medico legale che assistesse alle autopsie dei 13 morti. In seconda battuta ha scelto di affidarsi alla dottoressa Cristina Cattaneo, anatomopatologa nota anche fuori dai confini italiani, Ma è anche l’esperta che ha firmato la contestata perizia su Stefano Cucchi. Perché è stata designata proprio lei e per altri detenuti morti in circostanze tutte da chiarire? Alle domande di chiarimento de “la Repubblica”, il Garante Mauro Palma ha così spiegato: «L’ho scelta perché aveva uno spessore internazionale: a Lampedusa ha fatto uno straordinario lavoro per l’identificazione dei migranti morti in mare. E non sapevo, come mi hanno fatto notare, che era stata lei a firmare la prima perizia sul corpo di Stefano Cucchi. Quella in cui non ci si accorse del pestaggio».

Le regioni restano nell’ombra

La medicina penitenziaria, la medicina d’urgenza e il trattamento delle tossicodipendenze sono di competenza delle regioni. Dieci persone chiuse in carceri emiliane hanno perso la vita (sei nei confini regionali, tre fuori), tre sono morte in Lazio. Eppure, le Regioni interessate (anche Veneto e Piemonte, per due decessi post rivolta) non hanno mai dato conto di eventuali approfondimenti e dovuti accertamenti amministrativi, né di valutazioni su comportamenti e scelte del personale sanitario di servizio negli istituti e all’esterno.

* Giornalista

Newsletter N. 20, 25 gennaio 2021


Un anno dopo.  Arriva la richiesta di archiviazione

 Il punto un anno dopo. Nessuna verità sulle morti, nessuna giustizia.

di Sergio Segio, Susanna Ronconi

Dell’eccidio di persone detenute avvenuto nelle carceri un anno fa sono due le cose che maggiormente colpiscono: il numero senza precedenti delle vittime, 13, e la spessa coltre di silenzio immediatamente calata al riguardo; anch’essa inaudita, quanto meno nell’essere pressoché generalizzata. Eppure, proprio il drammatico numero dei morti e le voci di pestaggi di massa subito circolate avrebbero dovuto mobilitare l’attenzione almeno di una parte dei media, oltre che delle associazioni che sul carcere normalmente sono impegnate.

In passato è spesso avvenuto, ma non questa volta. Solo tardivamente, molti mesi dopo i fatti, il mainstream sembra essersi timidamente risvegliato, prima con il quotidiano “Domani”, poi con un’inchiesta de “la Repubblica” e una di “Report” sulla RAI.

Occorre chiedersi il perché di quel muro compatto, iniziato dalle non-risposte fornite al Parlamento dall’ex ministro Bonafede. Plausibile chiamare in causa la lettura fornita da ambienti e procure antimafia delle rivolte che hanno preceduto la strage: acriticamente amplificata dai media, indicava una regia e pianificazione da parte della criminalità organizzata.

Ipotesi non suffragata da alcun elemento, né al momento né in seguito, eppure capace di allineare la politica, catalizzare l’informazione e intimidire le voci critiche o dubbiose. Segno dei tempi, o, meglio, risultato di decenni di logica e di leggi di emergenza che hanno sedimentato una cultura giuridica e una prassi giudiziaria improntate al “diritto del nemico” e che hanno cristallizzato poteri esuberanti l’alveo costituzionale, godendo di consenso bipartisan ed essendo insuscettibili di contestazione, riserva o anche solo contenimento.

Fatto sta che assieme – o forse in conseguenza – a quelle culture e pratiche si è insediato un sentimento pubblico che vede la persona detenuta come priva e privabile di ogni considerazione e cittadinanza. Scarti sociali, la cui incolumità, salute e la stessa vita non sono da considerarsi beni da tutelare, diritti da riconoscere. Voluti e trattati come non-uomini e non-donne, da consegnare per un tempo più lungo possibile alla invisibilità e alla rimozione. Alla vendetta e alla punizione corporale, perché infine di questo si tratta.

A chi osa protestare, tocca spesso la rappresaglia fisica, oltre alla sanzione disciplinare e a quella penale. Così per quelle rivolte sono in corso procedimenti e processi contro decine e decine di reclusi, accusati di violenza o resistenza, ma le inchieste sulle 13 morti del marzo 2020 non hanno prodotto alcuna attribuzione di responsabilità, né penale, né politica, né amministrativa.

Il muro si è incrinato solo laddove i pestaggi per ritorsione siano avvenuti a distanza di tempo e comprovati da riprese video, come nel carcere di Santa Maria Capua Vetere; la locale procura ha infine messo sotto accusa ben 144 agenti penitenziari nell’inchiesta chiamata significativamente “La mattanza della Settimana Santa”.

Ovviamente, giudizi definitivi vanno rinviati all’esito delle sentenze, ma è facile sin d’ora presumere che – al di là di esse – si tratta di un’eccezione, che rischia di vedere confermata la regola dell’impunità. Tanto più intollerabile mentre ci si prepara al ventesimo anniversario della scuola Diaz e di Bolzaneto, dove i massacri e le torture potettero contare sull’esplicita copertura di vertici politici e istituzionali.

Per ragionare di tutto ciò, per ricordare, denunciare e proporre, il “Comitato nazionale per la verità e la giustizia sulle morti in carcere” nato all’indomani della strage (cfr. https://www.dirittiglobali.it/coronavirus-morti-carceri-appello), assieme ad altre associazioni, ha promosso un webinar il 9 marzo 2021, dalle 17.30

La registrazione del webinar, qui 

Interventi di

Enrico Deaglio (giornalista e scrittore)

Salvatore Palidda (già docente di scienze sociali, saggista)

Vincenzo Scalia (docente di Criminologia, University of Winchester, Ass.  Yairaiha)

Maria Sara Jijon (formatrice, esperta in questioni bancarie e finanziarie, è stata candidata alla vicepresidenza in Ecuador)

Michelina Capato (regista e.s.t.i.a. teatro)

Samuele Ciambriello (Garante delle persone private della libertà, Regione Campania)

Franco Maisto (Garante delle persone private della libertà, Comune di Milano)

Stefano Vecchio (presidente Forum Droghe)

Grazia Zuffa (presidente Società della Ragione)

Elia De Caro (Ass. Antigone)

Alice Miglioli (Comitato Verità per i morti del carcere Sant’Anna di Modena)

Giuseppe Mosconi (ordinario di sociologia del diritto, Università di Padova)

Franco Corleone (Com. Scientifico Società della Ragione)

Coordina Susanna Ronconi (Com. Scientifico Forum Droghe)


Quanti ciechi e muti sulla strage in carcere

di Sergio Segio

 

Tra il giorno 7 e il 10 marzo 2020 numerose proteste – alcune violente, ma altre pacifiche – hanno scosso decine e decine di carceri italiane. Il bilancio è tragico e senza precedenti: 13 persone detenute hanno perso la vita.

La sommossa è dilagata nel momento in cui veniva disposto il blocco dei colloqui con i parenti e mentre appariva crescente il rischio del contagio, in una informazione ancora caotica e approssimativa. Tanto più che le indicazioni date per ridurre il pericolo di contagio (distanziamento, lavaggio delle mani, mascherine e guanti) risultano impossibili da attuare nelle celle sovraffollate.

I detenuti si sentono topi in trappola, trattati come tali. Anche la preoccupazione per i famigliari, non più raggiungibili, porta al panico incontrollato. La paura e la disperazione possono far degenerare le situazioni: accade nelle situazioni “normali”, figuriamoci in carcere, figuriamoci mentre esplode una pandemia altamente mortale e dai contorni ancora indefiniti.

Come abbiamo richiamato nel nostro appello di un anno fa, dal quale è nato il Comitato per la verità e la giustizia, l’unica altra vicenda paragonabile per numerosità delle vittime è l’incendio nella sezione femminile del carcere torinese della Vallette del 3 giugno 1989, allorché perirono tra le fiamme, in preda al terrore e soffocate dal fumo tossico, nove recluse e le due vigilatrici che tentarono inutilmente di aprire le porte delle loro celle per impedire che le donne facessero appunto la fine dei topi in trappola.

Nella inchiesta giornalistica sulla strage di marzo – approfondita e meritoria, pur pubblicata a molta distanza dai fatti – de “la Repubblica” del 17 gennaio 2021, il richiamo storico, forse capziosamente, va invece alla rivolta nel carcere di Trani del 28 dicembre 1980, organizzata dai detenuti politici della lotta armata, che si concluse senza alcuna vittima e con un lungo e violentissimo pestaggio dei reclusi da parte dei reparti speciali.

Il carcere nelle situazioni di emergenza e di pericolo questo diventa: una trappola mortale, dove neppure si può tentare di salvarsi, dove la propria vita dipende totalmente da altri, dalla volontà o distrazione dei custodi, da regole spesso insensate e contradditorie, da misure impraticabili o trascurate, dalla prontezza o ritardo, compiacenza o arbitrio, sciatteria o senso di responsabilità di chi possiede le chiavi della gabbia.

Si può (si dovrebbe) facilmente immaginare quanto ciò potesse – e ha potuto – determinare paura e anche rabbia tra i reclusi. Invece, sulle rivolte e sulla strage si sono immediatamente esercitate le peggiori strategie e smaccate di disinformazione e di speculazione politica e di scalate ai vertici della amministrazione penitenziaria.

L’accreditamento della pista mafiosa

Solo il 17 marzo (all’interno del Decreto legge n. 18 2020, cosiddetto “Cura Italia”) viene varato un provvedimento teso a ridurre il sovraffollamento, che risulterà di scarsa efficacia, dati i numerosi paletti e gli attacchi politico-mediatici ai magistrati di sorveglianza. E solo il 21 marzo il DAP emana una circolare per consentire la possibilità di effettuare video-colloqui (e telefonate oltre i limiti di quelle normalmente consentite e di cui, in ogni caso, non beneficiano tutti i reclusi).

Ma già il 9 marzo alcuni sindacati di polizia, a rivolte ancora in corso o addirittura non iniziate (il maggior numero di carceri comincia le proteste proprio il giorno 9), parlano di «fenomeno tutt’altro che spontaneo» e di «strategia» della criminalità organizzata per «approfittare delle difficoltà causate dell’emergenza Coronavirus».

Il decreto del 17 marzo scatena poi la dura reazione dei PM antimafia che tuonano: «Questi benefici sono stati concessi all’indomani del ricatto allo Stato rappresentato dalla rivolta nelle carceri, voluta e promossa da organizzazioni criminali» e che riusciranno infine a ottenere la testa del capo del DAP, Francesco Basentini, dopo una virulenta campagna stampa da loro stessi promossa contro le “scarcerazioni facili”, ovviamente e al solito inesistenti.

Anche in questa circostanza si è dimostrata la verità di sempre: nell’amministrazione penitenziaria le carriere vengono compromesse non per malgoverno o inefficienza, violazioni di leggi e di regolamenti, ma per insufficiente rigidità nel trattamento dei reclusi o per conflitti con i sindacati autonomi di polizia penitenziaria. Banalmente, se un agente si dimentica di aprire una cella per l’ora d’aria non gli succede alcunché; se fa rientrare in ritardo un recluso dopo il passeggio rischia una sanzione disciplinare. Quella è la logica, quelle le consuetudini, quella la vera “formazione” degli agenti.

La tesi della regia mafiosa delle rivolte viene poi sistematizzata, con pretese di scientificità, nel report Un contagio parallelo – Come la mafia sfrutta la pandemia. La pubblicazione è curata dal Global Initiative against Transnational Organized Crime e rilanciata dal ministero dell’Interno, che ha come ricercatori anche giornalisti e criminologi consulenti dell’antimafia italiana e dello stesso Viminale, i quali hanno intervistato numerosi magistrati e dirigenti delle polizie riguardo le vicende del marzo scorso.

Vale la pena di leggerne alcune parti, per come abilmente sorrette da affermazioni apodittiche, in cui il giornalista riferisce di aver raccolto le interviste di due famosi magistrati il giorno dopo che sarebbero stati minacciati di morte per le loro posizioni sulle rivolte in carcere. O da altre, comodamente coperte dall’anonimato, come quelle di «un ufficiale della polizia penitenziaria», secondo cui «i capi prendono il primo letto, sono quelli che hanno coordinato le rivolte, i secondi e terzi letti cosiddetti, sono stati la manodopera. Quelli che sono morti, non possono più parlare». O quelle di «un investigatore di lungo corso, con specifica esperienza nel mondo delle carceri», che, scrive sempre il ricercatore-giornalista, «delinea il quadro reale: “Le rivolte hanno disegnato anche una precisa mappa delle mafie italiane. […] Sono sicuro che le mafie hanno guidato la rivolta, su questo non ci sono dubbi. Tutto organizzato con precisione. Appena sono cominciate le rivolte, e stiamo parlando di 70 carceri su tutto il territorio nazionale, i parenti dei detenuti erano fuori, come se lo sapessero, anzi lo sapevano. Questo è sicuro. Si sono coordinati e hanno attaccato tutti insieme”».

Non ci dilunghiamo qui a fare un’analisi del linguaggio [le sottolineature sono nostre], la cui capziosità risulta comunque evidente. Eppure, quella chiave di lettura, in assenza di qualsiasi elemento fattuale, né subito né in seguito, è diventata immediatamente una verità indiscutibile riguardo le rivolte, rilanciata dai maggiori quotidiani e programmi televisivi.

Una verità a reti unificate. Estratti di quel report vengono riportati dall’ANSA significativamente nel canale Legalità & Scuola, a intossicare strategicamente sin dalle aule con il giustizialismo e i teoremi le giovani menti in formazione.

Strategia cui collaborano attivamente anche testate come “il Fatto quotidiano” o come Radio Popolare, partner di scuole di formazione antimafia, con docenti universitari specializzati e procure. La lezione che inaugura il quinto ciclo di corsi l’11 gennaio 2021 (dopo una martellante campagna a colpi di spot sulla radio) ha un titolo più che esplicativo degli indirizzi e dell’impronta culturale sottesi: «Dalle rivolte del marzo 2020 alla scarcerazione dei boss: le contraddizioni della cultura progressista».

La cultura progressista, in verità, sembra essersi presto e in maggioranza allineata ai teoremi, ignorando ogni richiesta di verità e preferendo far calare sulla strage di detenuti una spessa coltre di silenzio e omissioni. Come ben ha ricordato, un anno dopo, una voce autorevole e competente come quella di Riccardo De Vito, presidente di Magistratura Democratica, nonché magistrato di sorveglianza, dichiarando che di quei giorni ricorderà «soprattutto il dramma della politica e dell’intellettualità italiane che, con poche eccezioni, hanno voltato la testa dall’altra parte».

Un anno dopo

A un anno di distanza si è infine arrivati a quanto era annunciato dall’inizio: per la locale procura l’inchiesta giudiziaria sui fatti di Modena si spegne in una richiesta di archiviazione. Come annunciavano già da subito, dalle prime ore, vale a dire prima di ogni indagine o autopsia, ministri, procure, giornali, i detenuti si sono suicidati imbottendosi di metadone e farmaci. Non c’è altra verità possibile.

Come tante e troppe volte è avvenuto in Italia, la certificazione ufficiale di morti di persone avvenute mentre erano nelle mani dello Stato è la solita, la più tranquillizzante, la più autoassolutoria. Se proprio non è suicidio, allora sarà stato “malore attivo”.

Anche in questo caso si conferma la regola ferrea. Nessun responsabile. Nessuna negligenza. L’unica colpa è quella dei detenuti, che si sono ribellati e che si sono ingozzati di farmaci. A sostegno di tale conclusione vi sono le autocertificazioni della polizia penitenziaria e dei medici che, pur dipendendo dal sistema sanitario pubblico, si sono dimostrati succubi delle logiche di sicurezza e degli apparati militari.

Ogni commento è superfluo, ancorché amaro. Ma la battaglia per la verità e la giustizia continua, a maggior ragione. Alcune associazioni hanno già annunciato opposizione alla richiesta della procura di Modena. Vedremo cosa decideranno di fare i Garanti.

Noi, naturalmente, continueremo a fare la nostra piccola parte. Consapevoli di come vi sia un dato che accomuna le carceri di ogni luogo e ogni tempo: ovvero che il carcere non solo produce ma è violenza, proprio mentre pretende di esserne risposta.

Violenza più o meno legale, più o meno aperta e diffusa, più o meno irrimediabile. Quando essa viene agita da detenuti, fioccano presto i processi e le condanne: da ultimo, il 12 marzo 2021, con le prime condanne ai detenuti di Venezia, mentre è di fine febbraio la condanna sino a due anni e mezzo di prigione dei primi 17 imputati, detenuti nel carcere di Opera, ma sono molti altri i processi in corso contro decine e decine di altri reclusi accusati per le proteste del marzo scorso.

Viceversa, non risulta sinora alcun imputato per i 13 reclusi morti. Se la violenza promana dalle istituzioni, storicamente, l’impunità è una costante.

Una verità che quasi nessuno più dice. Uno dei motivi ce lo ha spiegato il criminologo Nils Christie, considerato padre nobile dell’abolizionismo penale: «Alcuni di noi lavorano così vicini al potere e alle istituzioni deputate alla punizione da trasformarsi in tecnici della “erogazione della pena”. D’altra parte, la contiguità può diventare un’opportunità per capire meglio come vanno le cose e per svelare la natura del sistema. Il contatto e alcune forme di cooperazione sono in certa misura inevitabili e funzionano in maniera biunivoca: col nostro lavoro, noi possiamo influenzare gli operatori del sistema penale, ma nel momento in cui questi assumono alcune delle nostre prospettive, noi assumiamo alcune delle loro. Ci avviciniamo reciprocamente. Loro sono persone che si occupano di erogare pene, cioè sofferenza, e noi lo rendiamo possibile. Dobbiamo avvicinarci, per vedere. Ma avvicinandoci troppo potremmo diventare ciechi».

A un anno di distanza, viene da pensare che, anche per quanto riguarda la strage del 9 marzo 2020, troppi siano divenuti ciechi e muti.

Newsletter N. 24 16 marzo 2021


Contro l’archiviazione

Intervista a cura di Susanna Ronconi

 

Luca Sebastiani è l’avvocato della famiglia di Hafedh  Chouchane, uno dei detenuti morti dopo la rivolta al Sant’Anna di Modena. Ha presentato opposizione alla richiesta di archiviazione della Procura di Modena, con le motivazioni che ci ha esposto in questa intervista.

 

La richiesta di archiviazione della Procura di Modena sancisce che la morte di 8 dei 13 detenuti deceduti a seguito delle lotte nel carcere di Modena è da imputarsi a una overdose da metadone e da farmaci. Tuttavia  molti interrogativi non sembrano avere una risposta esauriente. Che cosa soprattutto secondo lei merita ulteriori approfondimenti?

 

Ci sono due aspetti davvero importanti che a nostro avviso meritano maggiore approfondimento. Il primo riguarda il tema della responsabilità omissiva.

Nel nostro ordinamento, chi riveste una posizione di garanzia e di protezione nei confronti di altri soggetti, perché ad esempio ne ha la cura o la custodia, ha l’obbligo di impedire l’evento e, se ciò non avviene, ne risponde appunto a titolo di responsabilità omissiva. I detenuti sono affidati alla custodia e cura dello Stato, che assumendosi l’onere di privarli della libertà personale deve assicurare anche la loro tutela e la loro salute durante la detenzione.

Pertanto, al pari di posti di lavoro, ospedali o altre strutture pubbliche o private, dove ogni giorno chi riveste la posizione di garanzia è chiamato a rispondere per fatti accaduti all’interno, questo tema, con riguardo a chi rivestiva la posizione di garanzia, andava preso seriamente in considerazione.

Stiamo parlando di una rivolta in carcere, dunque un evento prevedibile e, se fossero rispettate le condizioni, evitabile: in questo il tasso di sovraffollamento carcerario e la carenza di organico, così come risulta dagli atti e dall’ultimo rapporto di Antigone, hanno avuto un’incidenza notevole.

L’altro grande tema è quello relativo ad accertare se vi sono stati ritardi nei soccorsi.

Negli atti processuali emergono ricostruzioni differenti, parliamo anche di diverse ore, in merito all’orario in cui è stato prestato soccorso al povero Hafedh. Anche perché, come evidenzia il nostro consulente medico, l’assunzione del metadone, e i suoi effetti, sono iniziati diverse ore prima della morte. Questo tema doveva essere un quesito specifico da rivolgere al c.t.u. (Consulente Tecnico d’Ufficio) per capire quando il ragazzo si è sentito male, quando è stato soccorso e se poteva essere salvato.

 

Pensa che la Procura di Modena abbia chiarito a sufficienza il funzionamento di tutta la catena di comando durante e dopo la rivolta nel carcere Sant’Anna?

 

A mio avviso solo in parte. Emergono ricostruzioni a volte parziali ed in alcuni casi diverse tra loro e senza che in queste le difese siano mai intervenute. Quello che chiediamo è di poter sentire le persone informate sui fatti nel pieno del contraddittorio, per vagliarne l’attendibilità e riempire i vuoti presenti.

 

Nonostante la causa di morte risulti l’overdose, pure in alcuni casi sui corpi sono state riscontrare anche lesioni diverse. Crede che vi siano zone d’ombra da chiarire, a questo proposito?

 

Per quanto riguarda la posizione che assisto, no. Abbiamo chiesto al Giudice per le indagini preliminari, però, di acquisire agli atti gli esposti che sono stati depositati alla Procura di Modena, di cui si è tanto parlato, ma che sono evidentemente confluiti in altro fascicolo di indagine e non in questo. Proprio per evitare zone d’ombra che per rispetto dei familiari dei ragazzi deceduti non devono esserci.

 

Che previsioni può fare sull’esito della richiesta di archiviazione? e in caso di esito negativo, ritiene vi siano ulteriori passi che si possono compiere per non far cadere definitivamente il silenzio su questa strage?

 

Siamo convinti che le richieste che abbiamo formulato nell’opposizione verranno vagliate attentamente, dunque siamo fiduciosi ed attendiamo il vaglio giudiziario e non pensiamo ad altro.

Ci tengo però, a nome dei familiari, a ringraziare le associazioni, i comitati ed i giornalisti che si stanno occupando da mesi di questa vicenda, senza i quali non se ne sarebbe mai parlato. Dietro ad ogni singolo ragazzo deceduto quel giorno, c’era una storia, una famiglia, una vita: quello che è successo quel maledetto 8 marzo a Modena è stata una vera e propria tragedia, il cui silenzio che vi è stato per mesi è stato assordante.

Newsletter N 25, 10 maggio 2021


Strage di Modena. I dubbi sull’archiviazione

 di Francesco Maisto *

 

Ricordo bene quello che ho visto nelle carceri milanesi tra l’8 ed il 9 marzo dell’anno scorso e quello che ho potuto sapere dall’interno di altre carceri dislocate sul territorio nazionale.

Spero che di tutto si tenga vivo il ricordo, ed in particolare di quella “strage”, avvenuta a Modena in un contesto nazionale estremamente critico. Una strage senza precedenti nella storia carceraria.

I gravi fatti avvenuti il 9 marzo dell’anno scorso dentro e fuori del carcere di Modena e la vicenda più grave dei 13 morti sono descritti nella richiesta di archiviazione della locale Procura, e riguardano il decesso di 8 detenuti, mentre il procedimento per la morte di Salvatore Cono Piscitelli è pendente ad Ascoli Piceno all’esito di “rimbalzi” di competenze territoriali tra le Procure.

La data della richiesta non sembra casuale: il 26 febbraio 2021, dopo che, per un anno, tante istanze istituzionali e della società civile sono state avanzate per conoscere ufficialmente i nomi e le circostanze dei decessi.

 

Le conclusioni dell’inchiesta tra ritardi e omissis

La lettura dei paragrafi dedicati alla ricostruzione dei fatti, tra premesse generali e aspetti specifici per ciascun morto, induce a riflettere su alcune argomentazioni che meriterebbero approfondimenti da parte del Giudice.

Innanzitutto, destano perplessità gli omissis, il deposito della relazione preliminare della Polizia Penitenziaria solo il 21 luglio, e l’indicazione generica dell’attivazione delle Forze dell’Ordine a fronte del chiaro disposto dell’art. 93 del DPR del 39 giugno 2020, n. 230 che prescrive: «Qualora si verifichino disordini collettivi con manifestazioni di violenza tali da far ritenere che possano degenerare in manifestazioni di violenza, il direttore dell’istituto, che non sia in grado di intervenire efficacemente con il personale a disposizione, richiede al prefetto l’intervento delle Forze di polizia e delle altre Forze eventualmente poste a sua disposizione ai sensi dell’art. 13 della legge 1 aprile 1981, n. 121, informandone immediatamente il magistrato di sorveglianza, il provveditore regionale, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria».

Stupiscono, poi, sia la mancata identificazione della “catena di comando”, a fronte di una rivolta di dimensioni tali (il trasferimento verso altre carceri ha riguardato ben 417 detenuti) da farne ritenere impossibile l’accentramento in capo al comandante di reparto e al suo vice, sia la mancata menzione dell’eventuale ruolo di un direttore, ovvero dell’eventuale presenza, obbligatoria per legge, del PM e del Magistrato di Sorveglianza.

Eppure, per quanto difficoltosa, tale identificazione fu possibile nel procedimento per i fatti del G8 di Genova, come in quello per il famigerato “settembre nero di S. Vittore”, nel 1981, in cui, dopo l’intervento violento della “forza esterna”, furono trasferiti 130 detenuti senza alcun evento letale. Ed erano quelli tempi in cui non erano stati ancora costituiti nuclei speciali della Polizia penitenziaria.

 

La documentazione medica mancante

Desta perplessità che lo scenario evocato – quello di “medicina da campo da guerra” – abbia impedito non solo ogni documentazione della visita sanitaria prima del trasferimento (visita prevista dalla legge penitenziaria), ma anche l’identificazione dei detenuti ai fini dello smistamento tra quelli da trattenere, quelli da ricoverare in ospedale e quelli da trasferire (penso alla posizione di Rouan Abdellah, deceduto ad Alessandria). Ciò, nonostante la chiara individuazione dei “fronti” di attacco finalizzati alle evasioni.

Sarebbe dunque importante che il Giudice accertasse se, nella situazione rappresentata dal PM, sia stata data corretta applicazione all’art. 83 del DPR 30 giugno 2000, n. 230 in tema di trasferimenti dei detenuti – articolo che non prevede eccezioni – laddove dispone al comma 2: «Il detenuto o l’internato, prima di essere trasferito, è sottoposto a perquisizione personale ed è visitato dal medico, che ne certifica lo stato psico-fisico, con particolare riguardo alle condizioni che rendano possibile sopportare il viaggio o che lo consentano».

Stupisce, altresì, l’inadeguatezza del personale sanitario e di polizia delle carceri di destinazione dei trasferiti nella gestione degli stessi con il dovuto rigore e rispetto, evitando qualunque forma di rivalsa.

E poi: con quale criterio e verso quali carceri furono effettuati i trasferimenti di competenza del DAP, individuali e verso altre Regioni (da Modena a Trento, ad Ascoli Piceno), a distanza di centinaia di chilometri e per tante ore di viaggio, nonostante le risorse penitenziarie e sanitarie in Emilia-Romagna?

La richiesta del PM, sulla base delle autopsie, ricollega, sostanzialmente, il decesso degli otto detenuti, all’eccessiva assunzione di metadone e farmaci equivalenti a seguito dell’assalto all’infermeria, ma nulla dice su eventuali tentativi di somministrazione del Narcan in loco (pure disponibile nelle tende di soccorso apprestate fuori dal carcere), prima di avviarli verso carceri distanti centinaia di chilometri.

Allora si pone la questione della custodia dei farmaci, sia per quanto riguarda la quantificazione di quelli sottratti, sia per quanto riguarda l’accesso alla cassaforte.

Sulla quantificazione si dice che la rilevazione è stata fatta dalla Polizia Giudiziaria tra l’11 e il 12 marzo in base ai registri di carico e scarico, ma in altra parte della stessa richiesta del PM risulta che i cartacei non sono stati trovati e che invece è stata trovata nell’infermeria per terra la USB di registri dei farmaci.

E poi, la cassaforte, secondo la ricostruzione, era chiusa a chiave, conteneva farmaci, e le due infermiere si erano barricate dentro l’infermeria, protetta da una porta a vetri e da una porta blindata. Si trattava di un “blindo”, e si dice che i rivoltosi sarebbero entrati dopo avere “tagliato” il supporto del finestrino del blindo stesso con un flessibile. Non si adduce, tuttavia, la prova di tale “taglio”.

Anche le infermiere sarebbero riuscite a uscire dal finestrino del blindo.

Penso in particolare, alla singolarità della posizione di Chouchene Afed, di anni 34, da scarcerare dopo tre mesi, che muore per eccesso di metadone perché avrebbe bevuto a canna una bottiglia di tale sostanza, ma che, all’atto del decesso, fuori, nella tenda per il soccorso, viene trovato in possesso di quantità notevoli di farmaci occultati negli indumenti; così come, il giorno dopo, nella sua cella vengono rinvenute altre notevoli quantità di farmaci portati dopo l’assalto alla farmacia. Una contraddizione.

Spero che anche questi elementi vengano chiariti dal GIP per la ricerca della verità. Non bisogna dimenticare.

 

I pestaggi a freddo e le sanzioni

Nella presentazione di questa giornata di memoria avete scritto di «Rappresaglie che si sono succedute, tante e violente, durante e dopo le lotte, sui pestaggi avvenuti dopo che “l’ordine” era già stato ristabilito».

Indipendentemente dalla qualificazione, ricordo che nella Casa di Reclusione di Milano Opera, dove il 9 marzo si sono verificati disordini e l’intervento della Polizia Penitenziaria in tenuta antisommossa, sono stati sanzionati disciplinarmente detenuti non individuati poi come responsabili dalla Procura milanese. In particolare, la notizia di reato del 16 marzo ha riguardato ben 82 persone, mentre Il PM ha chiesto il giudizio solo per 22 detenuti. Quindi ben 60 persone estranee hanno subito sanzioni disciplinari – in forza di ben 82 procedimenti svoltisi paradossalmente in qualche giorno – anche con privazioni alimentari e artificiose ostatività alla concessione dei benefici previsti dalla normativa anti-Covid di cui al DL del 16 marzo 2020.

Infine, bisogna stigmatizzare le falsità sull’orchestrazione delle proteste da parte della criminalità organizzata e della tesi secondo la quale, in quella occasione, ci fu un secondo patto tra lo Stato e la criminalità organizzata. L’eterogeneità tanto delle modalità delle proteste, quanto delle richieste avanzate dai detenuti dalle diverse carceri sembrano escludere qualsiasi patto. Ma su questo spero che presto faccia chiarezza la Procura nazionale antimafia.

* Garante delle persone private della libertà, Comune di Milano

Newsletter N 24, 16 marzo 2021


Qualche interrogativo su metadone e Narcan

di Stefano Vecchio *

 

A leggere le notizie riportate da alcuni giornali e media locali e nazionali e in particolare scorrendo il testo della “Richiesta di archiviazione per reato commesso da persone ignote”, della Procura di Modena, sembrerebbe che “la natura” delle proteste nelle carceri avvenute nel primo lockdown, nel corso delle quali sono morte ben 13 persone, sarebbe attribuibile alla ricerca sfrenata e senza limiti di droghe da consumare. Nelle autopsie dei corpi delle persone detenute trovate morte sono state rilevate tracce di metadone e altri psicofarmaci, per lo più sedativi come le benzodiazepine, associate a segni di depressione respiratoria e altri legati a una possibile overdose. Osservo che quando si inserisce in una inchiesta giornalistica o giudiziaria la droga questa semplice presenza sposta lo scenario di riferimento e diventa immediatamente la causa del male sia per chi indaga che per chi costruisce le notizie sui media. Se poi si aggiunge che gli interessati sono migranti e detenuti non c’è via di scampo. Nel corso della pandemia, tra l’altro, gli stigmi si sono amplificati e diffusi in modo notevole.

Nella discussione si dimentica il contesto reale che ha provocato le proteste: la decisione dell’Amministrazione penitenziaria di chiudere tutte le comunicazioni dei detenuti con l’esterno, con i familiari in particolare, nel corso dell’emergenza Covid-19. Una reclusione nella reclusione, senza alcun tentativo di coinvolgimento dei detenuti né di informazione appropriata che ha creato e disseminato il panico prevedibile e da qui le proteste.

Senza negare che vi siano stati atti di vandalismo, lo scenario che emerge dai racconti e dagli stessi resoconti ci parla di una gestione dei disordini da parte delle amministrazioni penitenziarie fortemente securitaria e con violenze diffuse nei confronti dei detenuti.

Se inquadriamo in questo scenario le vicende delle proteste, gli interrogativi sulla causa delle morti attribuita all’uso di metadone e psicofarmaci sono particolarmente inquietanti. Mi riferisco in particolare a quanto risulta dalla lettura della citata Richiesta di archiviazione che, attualmente, rappresenta il documento disponibile che fornisce maggiori informazioni sugli eventi.

 

  1. Diverse testimonianze delle forze dell’ordine penitenziarie e del personale sanitario hanno descritto, con dovizia di particolari, i danni arrecati alle infermerie con la constatazione degli ammanchi del metadone e dei farmaci psicoattivi. Alcuni agenti della polizia penitenziaria raccontano anche di aver osservato detenuti visibilmente alterati e di averli collocati nelle celle insieme a detenuti più lucidi, per “cautela”.

 

  1. Altre testimonianze raccontano una realtà interessante: di aver allertato il 118 che è intervenuto salvando, in una circostanza, limitata a quella fascia oraria, diverse vite di detenuti che avevano una sospetta depressione respiratoria da uso di droghe, iniettando il Narcan, che è l’antidoto contro l’overdose da oppioidi e quindi anche da metadone. Non così in altre situazioni, come quelle dei trasferimenti.

 

  1. Mi chiedo: se si era riscontrata in modo così puntuale la sottrazione di ingenti quantità di metadone, se molti detenuti apparivano chiaramente alterati, se vi erano già stati interventi efficaci con il Narcan, come mai non è stata prevista e organizzata una osservazione continuativa da parte del personale sanitario o d’intesa con questo, considerato che i sintomi dell’intossicazione da metadone sono frequentemente tardivi e possono manifestarsi nel corso del sonno? Una tale organizzazione di monitoraggio che definirei di routine, e comunque doverosa stante le premesse, avrebbe potuto consentire un intervento appropriato visto che, come si sostiene, le morti sono state determinate prevalentemente da una overdose di metadone anche nei casi in cui si sono trovate tracce di altri psicofarmaci.

 

  1. Le descrizioni del rilevamento del metadone e degli psicofarmaci nelle autopsie sono riportate in modo molto dettagliato, così come le testimonianze sugli atti vandalici a carico della farmacia, ma sorprende che non vengano nemmeno notate le contraddizioni evidenti che ho esposto. E tra queste in ogni caso il rilievo, pure riportato, di ecchimosi e lesioni diverse e diffuse sui corpi dei detenuti deceduti, espressione di violenze considerate poco rilevanti in quanto non sufficienti a giustificare il decesso. Ma in ogni caso l’evidenza di una violenza subita non avrebbe richiesto una indagine? O la violenza sui detenuti, per giunta tossicodipendenti e migranti non fa né notizia né ha la dignità di essere presa in considerazione e quindi non può esigere giustizia?

 

  1. Sembrerebbe che vi sia stata l’esigenza di risolvere rapidamente la vicenda tralasciando le molte domande aperte, o meglio di “archiviare” l’accaduto.

 

  1. Mi chiedo ancora: se questi detenuti sono morti per overdose da metadone, è probabile che non fossero in trattamento presso il SerD dell’Istituto di Pena in quanto è difficile che una persona che assume il farmaco con una dose terapeutica possa avere una intossicazione acuta mortale. Allora mi chiedo che livelli di sofferenza stavano vivendo quei detenuti che, mentre protestavano, hanno avuto il bisogno di somministrarsi farmaci che non sono, in genere, i più ricercati da chi usa droghe perché non hanno effetti ritenuti piacevoli ma prevalentemente sedativi. È evidente che queste persone hanno ricercato una forma di autocura con un gesto estremo, in un contesto di agitazione e confusione che non ha consentito nemmeno di valutare vantaggi e svantaggi, rischi e danni. E mi chiedo ancora: ma questa sofferenza profonda avrebbe diritto a essere ascoltata e accolta? E quando dico diritto sottolineo diritto, visto che una legge dello Stato italiano, il DL 230/00, recita «i detenuti e gli internati hanno diritto, al pari dei cittadini in stato di libertà, alla erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione».

Forse i diritti alla salute sanciti dalla legge vanno sospesi nelle emergenze?

A questi interrogativi chi darà risposta? Spero che le indagini continuino per gettare luce sulla vicenda e per affermare il senso di giustizia di un Paese democratico.

Non mi anima alcun sentimento di rivalsa verso qualcuno. Certo se vi sono responsabilità individuali è giusto che vengano accertate e con i dovuti provvedimenti, ma non vorrei che il tutto si limitasse a individuare le eccezioni di alcuni comportamenti individuali.

La pandemia sempre di più fa emergere gli aspetti problematici dei nostri sistemi istituzionali, da quelli sanitari a quelli delle carceri. Le carceri nella pandemia sono sempre più chiuse, le attività di socializzazione sono sospese o limitatissime, quando resistono, e mentre noi, i liberi, abbiamo le disposizioni di stare distanziati, loro, i detenuti, stanno uno affianco all’altro sovraffollati e chiusi. La dimensione securitaria delle carceri emerge in questa fase in modo violento e pervasivo. Così come gli effetti perversi della legge 309/90 che – come documentato nei libri Bianchi dalla Società della Ragione, Antigone, Forum Droghe, il CNCA e molti altri – riempie le carceri per più di un terzo di tossicodipendenti e persone con condotte legate alle droghe.

Aggiungo che la logica securitaria nella forma biopolitica e psicopolitica che sta pervadendo le nostre vite quotidiane per effetto delle strategie del cosiddetto contenimento “infinito” della pandemia fa sempre più da specchio all’inasprimento securitario nelle carceri italiane.

 

Nessuno restituirà le vite dei tredici detenuti alle loro famiglie, ma questi eventi tragici non possono essere silenziati e richiedono anzi una profonda analisi, per affrontare la natura strutturale perversa che le produce. E questa prospettiva ci riguarda direttamente, non solo per un’esigenza etica di giustizia ma anche perché è in gioco la libertà di tutti noi.

* Presidente di Forum Droghe

Newsletter N 24, 16 marzo 2021


Un Dossier sui morti di Modena, del Comitato modenese verità e giustizia sui morti del Sant’Anna di Modena

https://www.dirittiglobali.it/2021/03/8-marzo-2020-il-dossier-sulla-strage-al-carcere-santanna/

 

15 mesi dopo. L’archiviazione

Le motivazioni del tribunale di Modena per l’archiviazione

A questo link le motivazioni del Tribunale:


I morti di Modena. Non è successo niente

di Susanna Ronconi

 

Marco Boattini, Salvatore Cuono Piscitelli, Slim Agrebi, Artur Iuzu, Hafedh Chouchane, Lofti Ben Masmia, Ali Bakili, Erial Ahmadi, Ante Culic, Carlo Samir Perez Alvarez, Haitem Kedri, Ghazi Hadidi, Abdellah Ouarrad. Morti a seguito delle lotte dell’8 e 9 marzo 2020.

 

Per 8 di loro, questione archiviata. Così la procura di Modena, nonostante parti civili, Garante nazionale e associazione Antigone. Questi ultimi non ammessi, a sancire che la difesa dei diritti di chi è detenuto non è rilevante, e chi se ne occupa non c’entra (“soggetti privi della qualifica di persone offese in riferimento ai reati ipotizzati”).

Un’ archiviazione contro cui, per più di un anno, in tanti abbiamo lottato. E che continuiamo, con ragione e tante ragioni, a non accettare.

Perché le responsabilità dell’amministrazione e della catena di comando balzano agli occhi dai verbali, dalle dichiarazioni, dalle testimonianze, dalle inadempienze, dalle parole di quei detenuti – gli unici che davvero rischiano per la verità – che non sono stati creduti o nemmeno ascoltati. Polizia penitenziaria (non proprio uno sguardo terzo e imparziale che non ha bisogno di riscontri…) e Polizia di Stato bastano e avanzano, per la ricostruzione dei fatti (“Relazioni redatte dalla Polizia penitenziaria e dalla Squadra Mobile della Questura modenese, ben sintetizzate nella richiesta in esame; e ad esse, pertanto, in ragione della accuratezza della struttura storico-narrativa e delle caratteristiche della presente fase procedimentale, pare lecito operarsi integrale riferimento”). Insomma, non servono altri riscontri. Le tante testimonianze sulle violenze ai danni dei detenuti sono voci rese mute, tacitate.

 

Ma anche volendo dire che la morte è sopraggiunta per overdose da farmaci e la violenza nulla conta – e noi non lo vogliamo dire, perché questo aspetto della vicenda, la violenza, doveva e deve essere oggetto di indagine – ciò che viene archiviato e su cui incredibilmente si rinuncia a indagare è comunque il fatto, così evidente,  che la morte non è stata per overdose ma per omissione di soccorso. E per totale incuria per la tutela della vita dei detenuti, alcuni imbarcati in lunghi viaggi verso altre carceri senza visite mediche degne di questo nome, senza accertamenti.

Al Sant’Anna, la morte di Hafedh Chouchane, da sola, avrebbe dovuto garantire il proseguo del procedimento: portato da alcuni compagni, preoccupati per le sue condizioni, davanti agli agenti sofferente ma ancora in vita, doveva e poteva essere soccorso (“in data 08.03.2020 … alle ore 19:30 circa, durante la protesta dei detenuti, che hanno invaso l’intero istituto, alcuni detenuti non identificati trasportavano il nominato in oggetto fino al passo carraio interno della portineria centrale dell’istituto perché non stava bene, lasciandolo in terra”).  Se di metadone si è trattato, allora il tempo dell’overdose è un tempo lungo, al contrario di quanto accade con l’eroina, e c’è tutto il modo di intervenire. L’antidoto per gli oppiacei, il naloxone, agisce in pochi secondi. Invece, dopo 50 minuti, un medico ne certifica la morte. E’ rimasto rantolante là, davanti al passo carraio del carcere, per 50 minuti. Chi non ha fatto ciò che doveva fare, in quei 50 minuti? E perché non c’era un piano di pronto intervento conoscendo il rischio overdose a seguito dell’appropriazione di una così ingente quantità di farmaci oppioidi? Una domanda ovvia, come ben spiega qui, nella sua intervista, l’avvocato Luca Sebastiani, tenace difensore di Hafedh Chouchane.

 

Ma la procura di Modena non se ne cura. Ecco comparire, a protezione e tutela di agenti, medici, amministrazione, il rischio eccentrico. Che cos’è? Si tratta, per farla breve, di una gerarchia di cosa è importante e cosa no, in questo caso si afferma che la rivolta è un fatto eccezionale e abnorme, che la prima cosa da fare è sedarla e che in tutto ciò non c’è tempo per vedere se qualcuno sta morendo e, in questo caso, soccorrerlo. E poi insomma, se la sono voluta. (“interruzione del vincolo protettivo gravante sul garante a fronte di condotte, assunte volontariamente dal soggetto tutelato (sic!), connotate, sotto i profili soggettivo ed oggettivo, da imprevedibilità ed abnormità rispetto all’area della tutela approntata dalla norma genetica dell’obbligo”). Una rivolta, un fatto abnorme in un carcere? Davvero?

In conclusione, “l’opposizione formulata dai familiari di Chouchane Hafedh, pertanto, deve essere rigettata per insussistenza di alcuna ipotesi di responsabilità in capo ai soggetti intervenuti nel

processo gestionale della sommossa”.

Con buona pace della procura di Modena, però, la cosa non finisce qui.

Si va alla Corte Europea, e sarà una battaglia dura. La Corte europea interviene laddove la giustizia nazionale non abbia fatto giustizia. E la Procura di Modena non l’ha fatta.

Newsletter N 26, 2 luglio 2021


Sui pestaggi, il silenzio. Ma Santa Maria Capua Vetere riaccende i riflettori

 

Il massacro di Santa Maria Capua Vetere

 di Massimo Congiu

 

Prosegue l’inchiesta giudiziaria scattata dopo le denunce riguardanti episodi di violenza sui detenuti del carcere Francesco Uccella, di Santa Maria Capua Vetere, che sarebbero avvenuti nell’aprile dell’anno scorso a opera di agenti della Polizia Penitenziaria (PP). Secondo diverse fonti l’indagine della magistratura si troverebbe a un punto di svolta. A oggi risultano essere 144 gli uomini della PP indagati: 92 di essi appartengono al nucleo operativo di Napoli Secondigliano, 36 al NOTP di Santa Maria Capua Vetere e 18 del NOTP di Bellizzi Irpino (Avellino).

La ricostruzione dei fatti ci riporta al 5 aprile scorso quando, diffusasi la notizia di un caso di Covid-19 in carcere, alcuni detenuti del reparto Nilo hanno iniziato a percuotere oggetti contro le porte delle celle in segno di protesta. Un gruppo di essi, poi, si sarebbe rifiutato di rientrare in camera ma, in sostanza, queste manifestazioni di malumore si sarebbero placate verso sera. Il giorno dopo ha luogo l’intervento di un’unità speciale, di circa cento agenti, pronti a intervenire in caso di necessità. Nel caso, insomma, si verificassero nuove e più radicali forme di protesta. Si tratta del GIR (Gruppo di Intervento Rapido) un corpo istituito nel mese precedente dal provveditore Antonio Fullone col compito di effettuare «attività di supporto agli interventi che dovessero rendersi necessari in ambito penitenziario regionale».

Ed è in quella circostanza che, secondo gli inquirenti, si sono verificate le violenze. Stando all’accusa, gli uomini del GIR avrebbero fatto irruzione nel reparto Nilo, prelevato i detenuti e inflitto loro una serie di violenze fisiche e di umiliazioni. Si parla di calci, pugni, manganellate, botte anche a detenuti finiti a terra da parte di agenti col volto coperto dal casco antisommossa e per questo non riconoscibili. Questi ultimi avrebbero percosso a colpi di manganello anche un detenuto sulla sedia a rotelle e il suo accompagnatore. Secondo le testimonianze, i detenuti sarebbero stati, inoltre, costretti a denudarsi, inginocchiarsi e fare flessioni. Dai resoconti si evince che tale intervento ha avuto luogo quando ormai i disordini erano terminati e, secondo le testimonianze, il modo in cui è stato condotto gli fa assumere i connotati di una rappresaglia, di una spedizione punitiva. Il tutto è reso ancora più grave dall’accusa, alle unità speciali, di aver fabbricato prove false per giustificare il loro operato. Più precisamente, gli uomini del GIR avrebbero messo a soqquadro una sala destinata alla socialità per far pensare a una rivolta violenta da loro sedata. Ma c’è dell’altro: gli agenti avrebbero anche intimato le vittime di tali violenze a non sporgere denuncia; «dì che sei caduto dalle scale», avrebbe detto un agente a uno dei detenuti malmenati.

Le accuse sono di abuso di potere e tortura; tra gli indagati anche il provveditore Fullone e il comandante del GIR. Il Garante regionale dei detenuti campani, Samuele Ciambriello, reclama a gran voce verità e giustizia; ci sarebbero anche immagini filmate dell’accaduto, ma sia Ciro Auricchio che Giuseppe Moretti, rispettivamente segretario regionale e presidente nazionale dell’USPP, difendono gli agenti di Polizia Penitenziaria che – dicono – «non sono torturatori e garantiscono la sicurezza nelle carceri». Entrambi affermano che questa vicenda è strumentalizzata dalla politica.

Dopo i primi 44 avvisi di garanzia nei confronti degli agenti coinvolti nell’episodio, Matteo Salvini si era recato personalmente a Santa Maria Capua Vetere per esprimere la sua solidarietà agli indagati. Di fronte all’ingresso del carcere aveva dichiarato «non si possono indagare e perquisire come delinquenti 44 servitori dello Stato». Ricordando quella visita, il Garante Ciambriello riporta anche una frase che il leader del Carroccio gli avrebbe rivolto immaginando di averlo davanti: «Cosa faresti se qualcuno ti gettasse addosso dell’olio bollente?», avrebbe detto, secondo il racconto dell’interessato. Ma di fatto non risultano tentativi di aggressione di detenuti nei confronti degli agenti intervenuti nel reparto Nilo il 6 aprile dell’anno scorso.

La strumentalizzazione leghista di quanto raccontato brevemente in questo articolo è poi passata, com’era prevedibile, per la messa in discussione del ruolo del Garante e per la richiesta di dimissioni di Ciambriello, causa pretese parzialità a favore dei ristretti.

In conclusione, e al netto di ogni sterile e fuorviante polemica, va detto che la vicenda si inserisce nella complessa fenomenologia carceraria, e che le accuse che l’hanno portata al centro delle cronache chiedono non solo di far luce su questo caso ma di dar luogo con urgenza a interventi che rendano il carcere un luogo più umano.

Newsletter N. 21, 24 febbraio 2021


Nessuna impunità per i fatti di Santa Maria Capua Vetere

di Samuele Ciambriello *

 

L’inchiesta sui fatti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere dell’aprile dell’anno scorso ha fatto dei passi avanti, è aumentato il numero delle persone indagate e sono emersi nuovi particolari. In fondo, però, il quadro appariva completo già negli ultimi mesi del 2020; le immagini filmate, del resto, erano più che eloquenti. Va ribadito che l’intervento del GIR (Gruppo di Intervento Rapido) non ha sedato una rivolta, semplicemente perché la rivolta non c’era, e gli atti di protesta si erano conclusi la sera precedente. Le responsabilità vanno accertate a titolo definitivo e in modo inequivocabile per il bene di tutti, per rendere giustizia alle vittime delle violenze e anche a chi con queste violenze non ha avuto niente a che fare e le ripudia come atto vile. Quindi bisogna far luce su questa vicenda nell’interesse di tutti.

Devo dire che la questione carceraria è lasciata in pasto a certa parte politica che fa leva sulle paure diffuse nella società, le strumentalizza e incoraggia un giustizialismo che secondo me comporta un’involuzione civile. Non bisogna più permettere una cosa del genere.

Per quel che riguarda l’episodio di Santa Maria Capua Vetere va detto che non si tratta di fare il processo all’intero corpo di Polizia Penitenziaria, ma di accertare le responsabilità in modo inequivocabile e intervenire di conseguenza. Si tratta di un dovere civile e morale. Si può togliere la libertà a un uomo per un reato commesso, ma non la dignità.

Come ho già detto prima, ci sono dei documenti filmati che parlano chiaro: forse gli agenti pensavano che le telecamere a circuito interno non funzionassero o, peggio, pensavano di restare impuniti. Il messaggio invece deve essere chiaro: nessuna impunità in questi casi. Non possiamo permettere che le carceri siano discariche sociali di violenza e malessere diffuso.

* Garante campano dei detenuti

Newsletter N. 21, 24 febbraio 2021


Mattanza nelle carceri: la riproduzione delle brutalità sistematiche del dominio liberista

di Salvatore Palidda *

 

La terribile mattanza da parte di operatori della polizia penitenziaria a Santa Maria Capua Vetere era nota sin dal giorno dei fatti solo grazie alla denuncia del Garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello. Ma c’è voluta la pubblicazione del video di tali fatti sul quotidiano Domani e poi su tutti i media nazionali per stupire, indignare e far reagire una parte dell’opinione pubblica. Questa è l’ennesima dimostrazione che per “diventare virale” la notizia deve essere corredata da “immagini forti”. Meglio che niente si può dire; una volta tanto i social e i media hanno diffuso un’informazione importante per la tutela dell’incolumità e dei diritti fondamentali di tutti gli esseri umani. Ma questa scoperta tardiva di un episodio tanto grave lascia quantomeno l’amaro in bocca alle persone che da sempre si impegnano per tale tutela e troppo spesso rimangono inascoltati, marginalizzati se non addirittura messi al bando (alludo all’Osservatorio Repressione, l’Associazione Contro gli Abusi in Divisa (Acad), “Verità e Giustizia per le Morti in Carcere” e Antigone, all’associazione A buon diritto, al libro Malapolizia di Adriano Chiarelli (2011).

Purtroppo, i fatti di quel carcere maledetto fanno parte di una pratica che sistematicamente si riproduce. E ogni volta che poi si scopre che si tratta di brutalità inaudite è sempre illusorio pensare che non si ripetano. La ricerca svolta sul dopo le violenze e la tortura praticate durante il G8 di Genova mostra in maniera inequivocabile che dal 2001 a oggi queste pratiche si sono succedute provocando un numero impressionante di vittime rispetto ai 20 anni precedenti (vedi Polizie, sicurezza e insicurezze, Meltemi, 2021).

I cognomi e talvolta anche i nomi di alcune di queste vittime sono ormai assai conosciuti: Carlo Giuliani, Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, e poi meno noti Marcello Lonzi, Giuseppe Uva, Aldo Bianzino, Niki Aprile Gatti, Stefano Brunetti, Serena Mollicone, Riccardo Rasman, Michele Ferrulli, Riccardo Magherini, Carmelo Castro, Simone La Penna, Cristian de Cupis, Manuel Eliantonio, Massimo Casalnuovo, Arafet Arfaoui, Sekine Traore, Jefferson Tomalà, Kayes Bohli, Dino Budroni, Mauro Guerra, Davide Bifolco, Francesco Mastrogiovanni, Stefano Consiglio, Riccardo Boccaletto, Gabriele Sandri, Vito Daniele, Stefano Frapporti, Aziz Amiri, Roberto Collina, Carlo Saturno, Abderrahman Sahli, Ilario Aurilia, Marcelo Valentino Gomez Cortes, Ettore Stocchino, Francesco Smeragliuolo, Vincenzo Sapia, Ciro Lo Muscio, Antonio Dello Russo.

A questi si aggiungono quelli della lista ancora più lunga dei morti “nelle mani dello Stato”, come dice l’Associazione A buon diritto, cioè dei morti in carcere o in stato di fermo com’è successo recentemente a Emanuel Scalabrin, morto in una cella di sicurezza della Caserma dei CC di Albenga. E fra questi i 13 detenuti morti durante la rivolta nel carcere di Modena (vedi l’appello del Comitato di verità e giustizia e vedi anche l’articolo di Lorenza Pleuteri).

Se si fa una ricerca anche solo approssimativa sulle notizie reperibili sul web riguardanti i casi di brutalità praticata da operatori di tutte le polizie si ottengono migliaia di risultati che si confondono con casi di corruzione, di “malepolizie” e ovviamente si tratta sempre solo di ciò che è stato scoperto. Il caso della caserma dei Carabinieri di Piacenza è emblematico ma alquanto simile ad altri casi in cui la pratica di brutalità e torture si sovrappone sempre a corruzione e vera e propria attività criminale.

È del tutto plausibile pensare che tali casi siano ancora più numerosi visto che la scoperta è sempre difficile poiché gli autori di tale genere di brutalità fanno parte di cerchie sociali e professionali autoreferenziali che legittimano tali comportamenti come socialmente e moralmente giusti e non semplicemente per “spirito di corpo”. Come scrive Sergio Segio sul sito del Comitato per la Verità e la Giustizia sulle morti nelle carceri (dirittiglobali.it): “Le mele marce che hanno partecipato alla spedizione punitiva che, secondo la locale Procura, ha massacrato e torturato i detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile 2020, erano circa 300. Non si ha notizia di mele sane che si siano rifiutate di partecipare, che abbiano tentato di impedire il pestaggio organizzato o che, non riuscendoci, abbiano poi denunciato l’accaduto”. In altre parole, si può dire che tali fatti sono abituali come comportamenti banali, anche perché in genere sono raramente impediti e puniti, al contrario prevale sempre la quasi certezza dell’impunità accordata ai carnefici.

Lo si era visto già in occasione delle violenze e torture contro chi si opponeva al G8 di Genova. Ci sono voluti oltre 15 anni di processi e infine la sentenza della Cassazione e della Corte europea per arrivare alla condanna ma solo di alcuni dei responsabili e autori di tali pratiche. Come ricorda il dott. Enrico Zucca il sabotaggio dell’indagine giudiziaria fu sistematico e ciò persino da parte degli allora dirigenti del tribunale di Genova. In realtà la mattanza di Genova fu la prima grande operazione del nuovo corso violento della gestione della sicurezza liberista. 20 anni dopo possiamo dire con certezza che l’ordine di massacrare i manifestanti e persino suore, anziani e ragazzi era tassativo: stroncare a ogni costo l’opposizione alle scelte dei dominanti e all’ordine liberista. Ed è la stessa logica che dopo ha prodotto centinaia di vittime anche nel quotidiano delle carceri, del controllo del territorio, dell’imposizione violenta da parte di caporali spesso lasciati fare da parte delle polizie garantendo così il lavoro super sfruttato o da neo-schiavi e a rischio di incidenti mortali.

La diffusione della violenza poliziesca come di quella dei caporali e del super sfruttamento è emblematica dell’attuale contesto in cui s’è imposta la sicurezza del dominio liberista che quindi nega la protezione delle vittime delle vere insicurezze che sono appunto il risultato dell’assenza di tutela dell’incolumità e dei diritti fondamentali dei dominati. E non è casuale che l’orientamento del governo Draghi non fa che confermare la scelta di un sicuritarismo che protegge solo i dominanti: di fatto solo misure a favore di dispositivi repressivi, per l’aumento delle forze di polizie e nessuna previsione di rafforzare la prevenzione, il personale socio-sanitario nelle carceri come fuori, gli ispettorati del lavoro e gli ispettorati Asl e Inail. Quindi nulla per la protezione delle vittime di abusi, violenze e persino torture e nulla per istituire una istituzione effettivamente indipendente per la sorveglianza delle attività di tutte le polizie, cioè per abolire l’impunità sinora sempre accordata alle forze repressive. Police partout justice nulle part diceva Victor Hugo nel suo celebre discorso al Parlamento francese. E ancora oggi: sempre più risorse per le polizie e la sicurezza liberista e sempre meno protezione e tutele per i deboli.

* Fonte: Micromega

Newsletter N.26, 2 luglio 2021


Oggi. La storia non finisce qui. Si va alla Corte europea dei diritti dell’uomo!

 Per Hafedh non finisce qui. Intervista a Luca Sebastiani

(a cura di Susanna Ronconi)

 

L’avvocato Luca Sebastiani è il difensore di Hafedh Chouchane, morto al Sant’Anna. Ha portato avanti con tenacia la battaglia perché si facesse chiarezza e giustizia, e contro l’ipotesi di archiviazione. Oggi fa un bilancio di questa brutta pagina  della giustizia italiana e promette che non finisce qui. La morte di Hafedh finisce alla Corte europea.

 

Colpisce, nella lettura delle motivazioni dell’archiviazione, proprio la parte che riguarda Hafedh, che lascia un interrogativo più che mai aperto: cosa è accaduto in quei 50 minuti, dalle 19.30 alle 20.20, tra quando i suoi compagni lo hanno portato, grave ma vivo,  davanti agli agenti a quando il medico ne ha certificato la morte? Del resto questo è uno dei nodi di tutta la vicenda: perché non sono stati salvati?

 

Ha perfettamente ragione, questo è il punto fondamentale che non è stato adeguatamente risolto.

Premesso che nell’atto di opposizione avevamo evidenziato come nella richiesta di archiviazione, e quindi negli atti di indagine, emergevano tre versioni differenti sui soccorsi ad Hafedh in relazione sia al posto dove lo stesso è stato consegnato dai detenuti non identificati agli agenti della penitenziaria, sia all’orario in cui questo è avvenuto. E stiamo parlando di differenze macroscopiche, che dunque dovevano essere chiarite. Ad ogni modo, pur prendendo in considerazione la ricostruzione avallata dalla Procura che lei ha citato, nessuno ha spiegato cosa sia successo in quei 50 minuti nei quali poteva essere salvato. Anche perché alle 19.30 pare sia stato consegnato agli agenti della polizia penitenziaria nei pressi dell’uscita del carcere e il medico era collocato immediatamente all’esterno, dunque a poche decine di metri.

 

Il giudice insiste molto sul “rischio eccentrico”, se interpretiamo correttamente significa che una tale situazione di emergenza giustifica che si sia posta la massima attenzione al controllo e alla repressione ben più che ad altri aspetti, quali la tutela dei reclusi Non è un modo, per altro sbrigativo, per aggirare ogni responsabilità della catena di comando?

 

Dal nostro punto di vista è discutibile ravvedere il “rischio eccentrico” quando si parla di una rivolta all’interno di un carcere. L’abbiamo ripetuto in più occasioni: la rivolta in un carcere è un evento che deve essere previsto e, nei limiti del possibile, evitato: è chiaro che in presenza di un tasso di sovraffollamento carcerario così elevato e di una presenza numerica della polizia penitenziaria ridotta rispetto a quando dovrebbe essere previsto, una rivolta può scoppiare e degenerare. Ma a mio avviso questa non è una giustificazione per chi aveva obblighi di protezione e garanzia nei confronti dei detenuti. Sono certo che questo tema sarà affrontato con estrema attenzione dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che saremo costretti ad adire e dove su queste tematiche il nostro Paese è stato condannato in più di un’ occasione.

 

Il Garante nazionale e l’associazione Antigone non sono stati ammessi, è una scelta che mina la possibilità per chi è recluso di avere tutela, sostegno e difesa. Che valutazione fa di questa scelta e, come avvocato, quanto pensa sia importante che le associazioni per i diritti di chi è recluso possano essere attori attivi in casi come questo?

 

E’ una domanda che dovrebbe rivolgere ai legali delle associazioni che sono certo avranno molto da dire su questo aspetto. A mio avviso è una decisione che non può essere accettata, in quanto quelle associazioni nascono proprio per tutelare i diritti dei soggetti privati della libertà personale e in una vicenda dove sono morti 8 detenuti all’interno di un carcere italiano appare quantomeno singolare che a tali associazioni non sia stata riconosciuta la legittimità ad intervenire.

 

Cosa succede adesso, è possibile che questa vicenda non si chiuda così? ci sono possibilità sul piano giuridico di ricorrere?

 

Questa vicenda non si chiuderà così. Per quanto riguarda le posizioni che assisto, avendo esperito ogni rimedio nazionale, siamo pronti, come dicevo, a presentarci davanti la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che già in passato è intervenuta in vicende simili e che sono convinto valuterà con attenzione le perplessità che abbiamo evidenziato.

 

Se possiamo porre una domanda sul piano più personale, cosa le lascia, in termini di riflessioni ma anche di sentimenti,  la storia di Hafedh e degli altri?

 

Tanta tristezza e delusione. E’ stato già molto doloroso affrontare la notizia della morte di Hafedh, al quale ero particolarmente affezionato; è stato ancor più doloroso dover informare personalmente i familiari, che non conoscevo, ma che se non era per me chissà quando lo avrebbero saputo; lo è stato vederlo sepolto in un cimitero vicino Modena in condizioni che vi lascio immaginare ed è davvero angosciante sentire ancora oggi la madre che non riesce a farsi una ragione e non ha ancora la possibilità di avere la salma di suo figlio in Tunisia. Per fortuna ci sono tanti cittadini che ci stanno dando una mano, costituendo comitati e raccogliendo fondi per rimpatriare la salma di Hafedh, ai quali va un sentito grazie da parte nostra.

Ci aspettavamo altro e per questo siamo delusi ed amareggiati, ma tutto questo è ciò che ci anima e che ci consente di portare avanti una battaglia così triste e solitaria.

Newsletter N. 26, 2 luglio 2021


Cosa può fare la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU)

Quando una indagine sulla morte di una persona detenuta si può dire una “indagine giusta”? Quando lo “stato che indaga su se stesso” lo fa in maniera tempestiva, accurata, trasparente, imparziale, in un tempo ragionevole e in modo tale da coinvolgere i famigliari della vittima? I corsivi non sono una nostra enfasi redazionale o l’invocazione, nuovamente, di una giustizia giusta per le 13 morti di marzo. Sono, invece, i criteri dettati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) rispetto a casi di morte di persone custodite dallo stato, in cui lo stato stesso sia sotto accusa. L’articolo che segue, a cura di Emanuele Ficara, avvocato di StraLi, riguarda un caso di morte in cella per presunto arresto cardiaco, su cui la Corte dovrà esprimersi, soprattutto in merito alla correttezza dell’indagine svolta attorno a presunte responsabilità istituzionali. Un articolo che consigliamo di leggere con attenzione, perché se parliamo di tempi, trasparenza, imparzialità e quant’altro, delle indagini in corso sui detenuti morti nello scorso marzo, scopriamo che la CEDU ha molto da dire alle istituzioni italiane e qualche appiglio da dare agli avvocati.

 Le indagini sulle morti in carcere: quando lo Stato indaga su se stesso, secondo la CEDU 

di Emanuele Ficara*

 

Gli avvocati Chiara Luciani e Nicolò Bussolati dello Studio Lexchanche di Torino si sono rivolti all’Associazione StraLi (for strategic litigation) sottoponendo un caso che riguarda la morte per un presumibile arresto cardiaco di un detenuto in carcere già ritenuto – in almeno due occasioni – incompatibile con il regime carcerario.

In ordine ai fatti di causa, la Procura della Repubblica effettuava unicamente una consulenza tecnica autoptica. Non venivano svolti accertamenti, audizioni testimoniali o acquisizione documentale particolare, e non veniva iscritto alcun indagato nel registro delle notizie di reato. Ciononostante, veniva formulata richiesta di archiviazione del procedimento, in quanto le cause della morte del detenuto venivano ritenute «poco prevedibili» e comunque «non prevenibili». La decisione di richiedere l’archiviazione del procedimento veniva notificata alla famiglia della vittima solo dopo circa tre anni dalla morte del detenuto.

Tali circostanze, debitamente denunciate dagli avvocati Luciani e Bussolati in sede giudiziaria, hanno permesso al team penale di StraLi, incaricato dagli avvocati, di individuare un particolare profilo di interesse “strategico” nella vicenda.

L’importanza e la strategicità del caso identificata dall’associazione (nei termini di potenziale impatto che una pronuncia delle Corti Superiori e sovranazionali sul caso potrebbe avere per elevare gli standard di tutela interni) riguarda principalmente il difetto di indagini accurate sull’accertamento delle responsabilità eventualmente individuabili nel caso.

Nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo si sostiene infatti che, considerato il suo carattere fondamentale, l’articolo 2 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (diritto alla vita) va interpretato nel senso che lo Stato deve garantire in primis (ex ante) la tutela della vita delle persone detenute, ed ex post (quando lo Stato “indaga su se stesso”) garantire che l’accertamento delle responsabilità sia efficace, tempestivo ed approfondito.

In particolare, la Corte ha negli anni avuto modo di enucleare precisi standard da rispettare nel corso delle indagini per l’accertamento delle cause della morte in ambito carcerario, partendo dall’assunto di una sussistenza di un rischio di “superficialità” degli accertamenti quando a essere indagati sono gli apparati statali stessi.

Sono, difatti, numerose le sentenze che riconoscono la responsabilità dello Stato per non aver compiuto indagini approfondite sulle responsabilità per le morti in carcere.

Più nello specifico, secondo la Corte EDU l’indagine sulle cause di una morte, per garantire un sufficiente standard di tutela dei summenzionati diritti, devono essere: a) avviate ex officio; b) tempestive e che si concludano prima dell’intervento della prescrizione; c) approfondite ed effettive; d) improntate a diligenza; e) idonee a identificare e punire i colpevoli; f) improntate a trasparenza; g) tali da consentire la partecipazione della vittima del reato o dei suoi familiari nelle indagini; h) tali da concludersi in un tempo ragionevole; i) svolte da un’autorità indipendente e imparziale rispetto a quella cui afferiscono i soggetti coinvolti e sottoposta a controllo pubblico.

Il livello di dettaglio con il quale la Corte analizza le indagini interne degli stati firmatari e identifica i criteri minimi da rispettare è assolutamente indicativo della delicatezza del tema posto. Addirittura, la Corte identifica le prove minime da acquisire (testimonianze anche indirette, perizie medico-legali comprensive di un’autopsia che fornisca un resoconto completo e preciso delle lesioni e di un’analisi obiettiva dei risultati clinici), la durata massima che dovrebbero avere le indagini per essere considerate effettive, il grado di trasparenza delle indagini e informazione alle parti private.

Insomma, a livello sovranazionale si può riscontrare un vero e proprio “vademecum” per le Procure della Repubblica da rispettare nello svolgimento delle indagini.

Uno dei pochi casi, sicuramente l’unico pubblicato, in cui la Corte EDU si è pronunciata sul tema con riferimento ad un ricorso contro lo Stato italiano è il caso della morte di Carlo Giuliani nel corso delle manifestazioni del G8 di Genova, trattato nel 2011 dalla Corte. In quel caso i Giudici avevano deciso (con 10 voti favorevoli e 7 contrari) che non vi era stata violazione dell’articolo 2 della Convenzione, fornendo tuttavia importanti precisazioni sul necessario rispetto del principio di effettività delle indagini sulle cause della morte.

Nella copiosità di sentenza in tema, ma con specifico riferimento al caso in esame, due particolari pronunce appaiono di maggior interesse, proprio perché si concentrano su casi assolutamente assimilabili.

Nella Sentenza 7 febbraio 2019, Patsaki e altri c. Grecia, la Corte ha affrontato il caso di un soggetto detenuto morto in carcere per un ipotetico difetto di cure adeguate. La Corte ha qui rilevato la violazione dell’art. 2 CEDU per l’eccessiva durata delle indagini condotte dalle autorità greche sulla morte della vittima – addirittura 4 anni e 8 mesi – nonché per il fatto che, ancora più nello specifico, nel corso delle indagini non venivano raccolte informazioni dai compagni di cella della vittima e l’indagine condotta nei confronti della direttrice del carcere era stata chiusa senza particolari accertamenti e senza alcuna motivazione.

Anche il caso di cui alla sentenza del 21 febbraio 2019, Mammadov e altri c. Azerbaigian, risulta particolarmente interessante. La Corte ha qui riconosciuto la medesima violazione dell’articolo 2, in quanto le autorità statali non avevano condotto un’indagine sufficientemente approfondita sulle cause della morte di un detenuto, e, in particolare, avevano omesso di considerare l’influenza che il ritardato trasferimento in ospedale ha avuto sul decesso, e di informare correttamente la moglie e il figlio della vittima dello sviluppo delle indagini e informate del loro esito.

Si nota dunque in tali pronunce l’estrema attenzione della Corte sovranazionale sul tema, tale quasi da assumere di fatto, in alcuni casi, un ruolo assimilabile a un Giudice per le indagini preliminari.

Nel caso sottoposto all’attenzione dell’Associazione, la prosecuzione delle indagini nel senso specificamente indicato nell’atto di opposizione formulato dagli Avvocati Luciani e Bussolati appare dunque l’unica strada percorribile al fine di rispettare sotto il profilo procedurale il disposto di cui all’art. 2 CEDU.

In un caso delicato come quello in esame, e in ogni altro caso di morte in carcere in circostanze non evidenti, l’operatore del diritto (in particolare gli organi inquirenti) dovrebbe dunque ampliare il proprio angolo visuale verso il diritto sovranazionale ove, come visto, sono contenuti in maniera alquanto approfondita i “canoni dell’indagine giusta”.

Tali canoni – da ritenersi ovviamente totalmente condivisibili – rischiano però di rimanere una litania inascoltata senza un effettivo ricorso alle Corti Sovranazionali da parte di tutti gli operatori del diritto (come visto, per quanto riguarda l’Italia si riscontra una sola pronuncia sul punto).

Nel caso di specie, un eventuale ricorso alla Corte EDU supportato da StraLi mirerebbe infatti a implementare il livello di tutela interno italiano in rapporto agli standard sovranazionali, uno degli obiettivi propri della strategic litigation in un sistema come quello europeo.

* Avvocato, responsabile del dipartimento di diritto penale di StraLi

Newsletter N. 16, 20 ottobre 2020


CERCHIAMO ANCORA E SEMPRE VERITÀ E GIUSTIZIA

Il Comitato sostiene il Ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’uomo

 di Susanna Ronconi

 

L’archiviazione del procedimento per 8 dei 9 detenuti a Modena morti a seguito delle lotte del marzo 2020 da parte del Tribunale non è per noi l’ultima parola.

La “insussistenza di alcuna ipotesi di responsabilità in capo ai soggetti intervenuti nel processo gestionale della sommossa”, come recita l’ordinanza del 16 giugno 2021, non risponde a tante, troppe domande circa i fatti e la loro dinamica, come abbiamo ripetutamente scritto e motivato (vedi le newsletter del Comitato); come ha sostenuto la difesa di uno dei detenuti morti nel carcere Sant’Anna di Modena, Hafedh Chouchane nell’opporsi all’archiviazione, e come hanno fatto il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale e l’Associazione Antigone, le cui opposizioni, tuttavia, incredibilmente non sono state ammesse dal GIP.

Giustizia non è stata fatta

Perché nessuno ha spiegato come mai, e per responsabilità di chi, Hafedh Chouchane non è stato soccorso e salvato, quando c’era tutto il tempo di farlo

Perché nessuno ha spiegato perché nessuno dei detenuti morti è stato salvato, quando proprio il furto di farmaci avrebbe dovuto far scattare un immediato piano di prevenzione e soccorso.

Perché nessuno ha spiegato come sia possibile che la catena di comando non abbia saputo far fronte a un evento – una rivolta – che in carcere dovrebbe essere prevista e preventivata, senza adempiere al dovere primario di tutelare e garantire la vita di chi è detenuto.

Perché nessuno ha spiegato perché non siano state effettuate accurate visite mediche, che avrebbero potuto salvare delle vite, nonostante la presenza di personale sanitario e ambulanze.

Perché non tutti i testimoni diretti sono stati ascoltati, come denunciamo con l’intervista che segue.

Perché sulle violenze ai danni dei detenuti, durante e dopo i fatti e durante e dopo le traduzioni ad altri istituti, non è stata fatta luce.

Giustizia non è stata fatta.

E quando la giustizia di un paese non tutela i diritti umani fondamentali, quelli sanciti dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, e non ne sanziona la violazione, allora si ricorre alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), che ha sanzionato l’Italia più volte per le condizioni di detenzione.

Questo farà la difesa di Hafedh Chouchane.

Per avere giustizia.

COME COMITATO VERITÀ E GIUSTIZIA SULLE MORTI IN CARCERE CREDIAMO CHE LA BATTAGLIA PER LA VERITÀ SIA ANCORA APERTA, CHE DEBBA CONTINUARE A STRASBURGO.

IL RICORSO ALLA CEDU È COMPLESSO, RICHIEDE RISORSE E MOLTO LAVORO DA PARTE DELLA DIFESA

VI CHIEDIAMO DI CONTRIBUIRE E SOSTENRE CON NOI IL RICORSO ALLA CEDU

Potete inviare il vostro contributo a:

Ass. Sapereplurale   IBAN IT64G0303201006010000091192

Specificando la causale RICORSO CEDU MODENA

Grazie!

Newsletter N. 27, 12 luglio



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