Kabul. Strage annunciata, attentato complesso all’aeroporto, 60 i morti

Kabul. Strage annunciata, attentato complesso all’aeroporto, 60 i morti

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La pista del terrore. L’annunciata azione dell’Isis colpisce con una triplice esplosione l’accesso dell’aeroporto. Tra le vittime almeno 12 soldati Usa

Una strage annunciata, rivendicata dallo Stato islamico, che capitalizza così l’attenzione mondiale concentrata da giorni sulla capitale afghana.. Sono almeno 60 i morti, centinaia i feriti provocati dalle due esplosioni che ieri nel pomeriggio hanno colpito l’aeroporto di Kabul. Già nei giorni precedenti, in particolare nella notte tra il 25 e il 26 agosto, erano cresciuti gli allerta delle ambasciate straniere: via dall’aeroporto, c’è un pericolo di attentati imminenti.

MOLTI AFGHANI hanno pensato a un modo per farli desistere. Per impedire che lo stretto passaggio di accesso all’Abbey gate, uno dei cancelli di ingresso all’aeroporto, si trasformasse di nuovo in un collo di bottiglia. Con centinaia e centinaia di persone in attesa di essere riconosciute, identificate attraverso fazzoletti colorati, scritte sui palmi delle mani, bandiere, chiamate concitate, condivisioni di posizione, selfie e cartelloni. E di poter essere finalmente “recuperate” dai soldati inglesi, statunitensi. E italiani.
Lungo il canale di scolo delle acque reflue dell’aeroporto, a ridosso dell’Abbey Gate, c’erano anche gli afghani inclusi nelle liste delle Ong italiane che in questi giorni non hanno mai smesso di lavorare. Erano in attesa di essere evacuati. «Ora i soldati vanno a prenderli». «No, non escono, ci sono problemi di sicurezza». Non c’è stato modo di recuperarli. Rimarranno in Afghanistan, per ora. Ma sono vivi, sembra.

NON È LO STESSO PER MOLTI ALTRI. Sui telefoni sono cominciati ad arrivare i video poi trasmessi dalle televisioni, tagliati oppure oscurati. I corpi nel canale, insanguinati, a testa in giù, i vestiti laceri, i pianti disperati. Vale anche per le vittime nei pressi del Baron Hotel, altro punto di raduno per gli aspiranti migranti, obiettivo di una seconda esplosione, a cui sembra sia seguita in serata una terza, parte di un attentato complesso, ben orchestrato. Che chiude con il sangue la finestra di opportunità di emigrare e certifica il fallimento del ritiro «responsabile» di Joe Biden. Alle sue spalle, solo macerie umane.
Gli afghani sono stati costretti all’umiliazione della calca, dell’attesa snervante, della famiglie divise, delle donne picchiate, poi a rischiare la vita, in troppi casi a perderla, perché il disimpegno di Washington è stato un disastro. Soltanto poche settimane fa, alle domande dei giornalisti sull’Afghanistan Biden rispondeva: «Parliamo di cose allegre». Tre giorni fa lanciava l’allarme: «Prima ce ne andiamo meno rischiamo. C’è il pericolo di attentati dello Stato islamico». Poi l’incontro segreto tra il numero due dei Talebani, mullah Baradar, e il capo della Cia William Burns, alla ricerca di rassicurazioni sull’incolumità del personale americano in questi ultimi giorni di presenza.

OGGI BIDEN CONTA almeno 12 marines morti. Mentre la maggior parte dei governi alleati anticipa la conclusione dei ponti aerei e il ritiro completo delle truppe. Solo Boris Johnson e l’indefesso Jen Stoltenberg, a capo della Nato, assicurano che il lavoro continuerà, anche dopo il 31 agosto. Anche dopo la strage di ieri. Ma i circa 35 milioni di afghani che restano nel Paese non possono permettersi l’allegria invocata da Biden. Al potere ci sono i Talebani. Pochi giorni fa rivendicavano la fine della guerra, l’inizio di una nuova stagione, forse senza libertà, certo, ma pacifica, dicevano. Si ritrovano a pubblicare un comunicato in cui scaricano la responsabilità della sicurezza dell’aeroporto agli Stati uniti. Dopo averla avocata a sé e aver sbandierato l’efficacia delle equipaggiatissime truppe speciali.
La strage di ieri è un segnale preoccupante. Indica che è finito il conflitto conosciuto negli ultimi venti anni, che ha visto impegnati i Talebani da una parte (sostenuti da sponsor stranieri), dall’altra gli Usa, la Nato e il governo di cartapesta di Kabul. Ma inizia una nuova fase del conflitto. Più interno, ma dagli esiti letali.

LO SCENARIO AFGHANO richiede prudenza, ma è verosimile che la responsabilità degli attentati sia della Provincia del Khorasan, la branca locale dello Stato islamico fondata tra la fine del 2014 e l’inizio del 2015. Verso di loro – spiega Antonio Giustozzi nel libro The Islamic State in Khorasan (Hurst Publishers) – i Talebani hanno adottato tre strategie: scontro diretto, non-interferenza, dialogo. Sono state siglate e poi archiviate alleanze temporanee. In particolare con gli Haqqani, la componente più oltranzista del movimento, responsabile di stragi e attacchi complessi nelle città.
Gli Haqqani, che dalla conquista di Kabul del 15 agosto hanno una sorta di monopolio sulla sicurezza della capitale, nell’inverno del 2016 hanno visto un’emorragia di militanti verso il più radicale Stato islamico. Tra loro il capo della Commissione Fedayin, la cellula responsabile degli attacchi complessi. Un patrimonio di competenze, know-how e tecniche stragiste finite nelle mani dei nuovi arrivati. Con cui gli Haqqani nell’inverno successivo hanno trovato un accordo su Kabul, colpita da molti attentati suicidi. Poi l’accordo è saltato. La leadership talebana e alcuni sponsor stranieri hanno richiamato all’ordine gli Haqqani. Tanto che i Talebani alla fine del 2019 hanno contribuito allo smantellamento del quartiere generale della Provincia del Khorasan, nella provincia orientale di Nangarhar. In un’inedita, strana alleanza con le forze speciali americane e quelle afghane.

NEL FEBBRAIO 2020 è arrivato l’accordo bilaterale con gli Usa, firmato a Doha. I Talebani sono diventati alleati, contro il pericolo dei jihadisti veri, duri e puri. Negli scorsi giorni hanno ribadito che dal territorio afghano non arriverà alcun pericolo all’esterno. Promettevano agli afghani di poter dare loro sicurezza. Gli attentati confutano questa rivendicazione, con cui negli anni Novanta, nel pieno della guerra civile, avevano edificato l’Emirato islamico. Il nuovo Emirato parte zoppicante. Perde una gamba fondamentale. La prova di muscoli che ha condotto alla fuga del presidente Ghani e al collasso della Repubblica forse è solo un’esibizione. Neanche loro sono in grado di garantire sicurezza, di fronte al terrorismo indiscriminato dello Stato islamico.

QUESTA È UNA LETTURA. L’altra, più preoccupante, è che – proprio alla luce dei «travasi di competenze» tra la rete Haqqani e lo Stato islamico – gli attentati riflettano uno scontro interno al movimento fondato da mullah Omar. Unito fino a quando si trattava di cacciare l’occupante infedele. Diviso nella spartizione del potere.

* Fonte: Giuliano Battiston, il manifesto



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