Qatar, ancora lavoratori migranti stroncati sul lavoro dal caldo

by Michele Giorgio * | 27 Agosto 2021 9:27

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Mondiali 2022. A lanciare un nuovo allarme sulle condizioni del lavoro nel paese del Golfo è Amnesty International che ieri ha chiesto all’organizzatore della Coppa del Mondo di agire per fare luce sulle morti dei lavoratori stranieri

Infarti, insufficienza respiratoria acuta, cause naturali. I certificati di morte rilasciati dalle autorità qatariote per i decessi dei lavoratori stranieri sono ripetitivi e ridotti all’osso. E non appaiono come il risultato di indagini serie. I morti infatti sono giovani che non rientrano nella fascia di età dove più comunemente si registrano malattie cardiovascolari. E non può non generare sospetti il fatto che parecchi dei lavoratori migranti morti per «arresto cardiaco» fossero impiegati della costruzione degli stadi di calcio in cui tra un anno si disputeranno i Mondiali.  A lanciare un nuovo allarme sulle condizioni di lavoro nel Qatar è Amnesty International che ieri ha chiesto all’organizzatore della Coppa del Mondo 2022 di agire per fare luce sulle morti dei lavoratori, molte delle quali sono avvolte nel mistero. Pronta la replica del Qatar che respinge le accuse. Per un portavoce dell’Ufficio per le comunicazioni del governo le statistiche sugli infortuni e sulla mortalità del paese sarebbero «in linea con le migliori pratiche internazionali e stabiliscono nuovi standard per la regione». Non solo, aggiunge, «Il Qatar ha compiuto progressi significativi e lo scorso giugno ha introdotto leggi che ampliano le ore durante le quali è vietato il lavoro all’aperto, introducono controlli sanitari per tutti i lavoratori e richiedono l’interruzione immediata del lavoro se la temperatura raggiunge vette pericolose».

Per Amnesty le cose non sono così limpide. Non sono state avviate indagini, sottolinea, nonostante gli evidenti i legami tra le morti premature e le pesanti condizioni di lavoro. Nel suo rapporto presentato ieri – «In the Prime of their Lives» – il gruppo per i diritti umani afferma che il piccolo e ricco regno del Golfo attribuisce sistematicamente i decessi a «cause naturali» e «insufficienza cardiaca» e così facendo esclude la possibilità di risarcimento per le famiglie dei migranti. Invece, denuncia Amnesty, occorre mettere in relazione il clima estremo del Qatar ed orari di lavoro lunghi e molto faticosi. In 18 certificati di morte di lavoratori migranti emessi tra il 2017 e il 2021, 15 non forniscono informazioni sufficienti sulle cause del decesso e contengono solo termini come «cause naturali di insufficienza cardiaca acuta» e «insufficienza respiratoria acuta».

Nei mesi scorsi il quotidiano britannico Guardian, dopo una lunga indagine, aveva riferito che oltre 15.021 lavoratori stranieri – di tutte le età e professioni – sono morti tra il 2010 e il 2019 in Qatar. Circa due milioni di persone provenienti da India, Pakistan, Nepal, Bangladesh, Sri Lanka e Filippine sono stati reclutati in massa per costruire sette stadi, una città, aeroporti e infrastrutture. 5.927 «Morti bianche» avvenute in maggioranza da quando Doha ha ottenuto dalla Fifa i mondiali di calcio del 2022. Quasi due morti nei cantieri ogni giorno ma il lavoro prosegue senza interruzioni per dieci ore al giorno anche nei mesi estivi e temperature che sfiorano i 50 gradi. Gli esperti ritengono pericoloso per il sistema cardiovascolare lavorare nelle ore centrali del giorno all’aperto in Qatar almeno fino a ottobre.  Ed è improponibile parlare di «morti naturali» per i più giovani.

Proprio nei giorni scorsi si è conclusa la prima visita in Qatar del gruppo di lavoro istituito dall’Uefa di acquisire una migliore comprensione delle questioni relative ai diritti umani in Qatar fino alla Coppa del Mondo 2022 e oltre. Ha avuto incontri varie organizzazioni del lavoro locali e internazionali e con i lavoratori migranti e ha visitato lo stadio Ras Abu Abud, che ospiterà sette partite del Mondiale.

* Fonte: Michele Giorgio, il manifesto[1]

 

 

ph by Jacquelinekato, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

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