America, a mai più rivederci. I Talebani in festa intimano: «Non riprovateci»

by Giuliano Battiston * | 1 Settembre 2021 11:20

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La grande impotenza. La partenza dell’ultimo marine, la presa dell’aeroporto, le foto ricordo, la propaganda: «È il terzo impero che se ne va sconfitto». Poi l’auspicio: «Vogliamo relazioni diplomatiche con tutti, nel rispetto reciproco»

I Talebani celebrano vittoria. Il generale maggiore Chris Donahue, comandante della 82esima divisione aerea, sale sul C-17: è l’ultimo soldato degli Stati Uniti a lasciare l’Afghanistan. Con lui si chiudono chiudono vent’anni di occupazione militare. Terminata con una sconfitta plateale, dalla portata storica, le cui conseguenze si dispiegheranno nei prossimi mesi e anni.

I TALEBANI FESTEGGIANO, ORA. Nella notte tra lunedì e martedì il cielo della capitale si riempie di razzi e spari. Un modo per celebrare, ma anche un monito per la popolazione: qui comandiamo noi. Il momento è storico, ripetono sui canali social. Abbiamo liberato il Paese dalla grande potenza straniera. Le forze speciali dei turbanti neri, seguite dai giornalisti, entrano all’aeroporto “Hamid Karzai” e negli hangar, per poi salire sugli elicotteri Chinook e farsi immortalare dai fotografi. La propaganda vola alta. «Il terzo impero se ne va sconfitto. Quello britannico nel 1919, quello russo nel 1989, l’americano nel 2021».

Ieri mattina, a Kabul, Herat, Khost e in altre città, i caroselli per le strade. Altoparlanti a tutto volume, armi in pugno, frequenti «Allah Akbar». Per le strade, i passanti ricevono biglietti che festeggiano la liberazione. Sventolano i bandieroni bianchi. Non sono mai stati ammainati in questi venti anni di resistenza al grande nemico e ora tornano a essere issati. Lasciando milioni di afghani e afghane nell’incertezza e nel timore, alle prese con un governo non ancora annunciato ma arrivato al potere con la violenza, gli attentati suicidi e indiscriminati, contro uomini, donne e bambini.

TUTTO LECITO, continuano a dire i Talebani, pur di riconquistare libertà e sovranità. Le parole enfatizzate ieri mattina dal portavoce Zabihullah Mujahid, arrivato all’aeroporto con una delegazione. Il suo discorso è rivolto, come nei giorni scorsi, all’interno e all’esterno. La guerra è finita. La vittoria dei combattenti porterà prosperità e sicurezza. Verso la comunità internazionale usa un doppio registro: guai a chi intenda provare a occupare di nuovo il Paese, farebbe la stessa fine degli americani sconfitti, ma «vogliamo relazioni diplomatiche con tutti, sulla base di rispetto reciproco e indipendenza». Anche con Washington.

Il segretario di Stato americano Antony Blinken parla di un nuovo capitolo, in cui conterà l’impegno diplomatico, non quello militare. Ma sull’ultimo volo che lasciava Kabul c’era anche Ross Willson, il più alto diplomatico Usa. Una fotografia lo ritrae appena prima della partenza. In braccio, accuratamente piegata, la bandiera a stelle e strisce. Intorno, una quindicina di soldati. Molti ridono.
Non ridono le famiglie delle vittime di una guerra durata venti anni. Vittime causate da chi oggi è al potere e parla di pace, così come da chi si è appena ritirato ed evita di nominare la sconfitta. Le truppe straniere, ha ricordato Shaharzad Akhbar – coraggiosa donna a capo dell’Afghanistan Independent Human Rights Commission – si lasciano alle spalle tanti morti civili. Tante richieste di giustizia, a cui qualcuno dovrà rispondere per non perpetuare il ciclo di rivincite e vendette.
Difficile aspettarsi che i governi coinvolti nel lungo conflitto afghano rinuncino alla cultura dell’impunità che ha protetto i responsabili di potenziali crimini di guerra. Difficile aspettarsi che traccino un bilancio politico del fallimento di cui sono stati parte. E che ha portato al potere coloro contro i quali si è combattuto per tanti anni.

I TALEBANI NON HANNO PIÙ SCUSE, ripetono gli osservatori, tra cui l’inviato speciale del presidente Trump e poi di Joe Biden, Zalmay Khalilzad. Artefice dell’accordo di Doha del febbraio 2020, ricorre al poeta Rumi per nascondere l’imbarazzo. Neanche lui riconosce la sconfitta. Parla di una nuova epoca, di un’opportunità per i Talebani. Che dettano le regole, ora. L’odiata amministrazione di Kabul, quel governo considerato fantoccio e combattuto militarmente, si è dissolto. L’odiata potenza occupante, il grande nemico infedele, si è ritirato. Rimangono gli afghani e le afghane, a cui dar conto. Politicamente, di fronte a loro c’è una scelta simile a quella che ha dovuto prendere la comunità internazionale dopo il rovesciamento dell’Emirato, nel 2001. Se includere o meno nel nuovo assetto politico-istituzionale gli sconfitti. Allora i Talebani, esclusi dalla conferenza di Bonn. Oggi i rappresentanti della defunta Repubblica islamica.

Il governo sta per essere annunciato. Mullah Baradar sta tornando da Kandahar, dove si sono svolte le consultazioni, a Kabul. Così dicono i Talebani. Che cementano la presa del potere con i simboli.
Ieri una carovana di jeep, pick up, mezzi militari dell’ex esercito afghano è arrivata sulla tomba del fondatore del movimento, mullah Omar, nella provincia di Zabul. Qualcuno sostiene che ci fosse anche mullah Haibatullah Akhundzada, l’uomo che, non senza difficoltà, ha condotto i Talebani alla vittoria. Secondo i canali ufficiali del movimento avrebbe anche presieduto tre giorni di incontri a Kandahar, in vista dell’annuncio del nuovo governo.

PER ORA IL “COMANDANTE dei fedeli” Akhundzada ancora non si vede. Ma verrà per celebrare l’inizio di una nuova era di libertà e indipendenza, ripetono i canali della propaganda dei turbanti neri. Un’era già segnata da rivalità e dissidi profondi. Anas Haqqani, 27 anni, il figlio minore del fondatore dell’omonima rete del terrore Jalaluddin e fratello del numero due del movimento talebano Sirajuddin, rilascia interviste su interviste. È stato in carcere per cinque anni. Per poi essere rilasciato nel novembre 2019 nello scambio di prigionieri che, così assicurava l’inviato Khalilzad al riluttante presidente Ghani, avrebbe facilitato il dialogo intra-afghano. Anas, che sui social si presenta come un poeta, assicura che nonostante il carcere, le sofferenze, i quattro famigliari uccisi nella guerra al terrore, è pronto alla pace. Che la guerra è alle spalle. E che non ci sono dissidi interni al movimento. Contrariamente a quanto molti sostengono, precisa, non esiste da una parte la rete Haqqani e da una parte i Talebani: «Siamo noi i Talebani. E siamo qui per governare. In pace».

* Fonte: Giuliano Battiston, il manifesto[1]

 

Foto di David Mark da Pixabay

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  1. il manifesto: https://ilmanifesto.it/

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