Etiopia. Strage con altri 125 morti, papa Francesco si appella per la pace

by Fabrizio Floris * | 12 Settembre 2021 8:14

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Nei giorni del capodanno etiope. I ribelli del Tigray accusati della strage negano: «fabbricazioni del governo». Si muove, per la prima volta, la società civile

L’essere umano accetta a stento di vedere i suoi simili morire uno alla volta, non si sa perché, ma quando si supera la soglia fatidica dell’uno diventa troppo: è quello che sta accadendo in Etiopia dove non si muore più come umani, ma come formiche.

DECINE, CENTINAIA alla volta. Martedì in un villaggio vicino Dabat nella regione Amhara sono stati uccisi 125 civili secondo quanto riportato dalla Reuters i responsabili sono, in base a testimonianza locali, le forze ribelli del Tigray, ma i tigrini smentiscono sostenendo che si tratta di «accusa fabbricata» dal governo regionale di Amhara. Militari del Tigray, secondo il ministro degli esteri etiope, «hanno cercato di entrare nelle regioni di Benishangul Gumuz e Amhara attraversando il confine sudanese», ma sarebbero stati catturati e alcuni avrebbero con loro documenti di riconoscimento dell’Unhcr.

UN FUNZIONARIO dell’Alto Commissariato ha dichiarato a France-Presse che «dall’inizio del conflitto sono state messe in atto procedure di controllo alla frontiera e tutti i militari sono stati disarmati e separati dalla popolazione civile», ma non siamo in grado di verificare la notizia, tuttavia ha precisato che «le accuse di addestramento militare nei campi profughi sono infondate». Resta grave la situazione anche sul piano umanitario. Secondo l’ufficio di coordinamento degli aiuti delle Nazioni Unite Ocha dal 12 luglio sono riusciti a passare meno del 10 per cento dei camion che avrebbero dovuto raggiungere le popolazioni colpite da mesi di combattimenti.

Il coordinatore umanitario in carica in Tigray, Grant Leaity, ha affermato che, in conformità con il diritto umanitario internazionale, «tutte le parti in conflitto devono consentire e facilitare il passaggio rapido e senza ostacoli di aiuti umanitari imparziali per evitare questa catastrofe incombente».

IL PORTAVOCE del Dipartimento di Stato Ned Price ha esortato «il governo etiope e il Tplf ad avviare immediatamente negoziati senza precondizioni verso un cessate il fuoco sostenibile».
Anche Papa Francesco è di nuovo intervenuto sulla crisi in Etiopia mercoledì 8 settembre in occasione dell’udienza generale: «rivolgo, ha detto il Papa, al popolo etiope il mio più cordiale e affettuoso saluto, in modo particolare a quanti soffrono a motivo del conflitto in atto e della grave situazione umanitaria da esso causata. Sia questo un tempo di fraternità e di solidarietà in cui dare ascolto al comune desiderio di pace».

In occasione del capodanno etiope dell’11 settembre 24 organizzazioni etiopi della società civile hanno lanciato un appello collettivo per la pace in Etiopia.

È LA PRIMA VOLTA nel Paese che la società civile lancia un appello collettivo per la pace e la cessazione delle ostilità. «Le cause profonde che hanno dato origine al conflitto non saranno risolte in modo sostenibile attraverso la guerra e la violenza» hanno dichiarato.

Sul piano diplomatico l’Igad (Autorità intergovernativa per lo sviluppo nel Corno d’Africa) ha chiesto al presidente del Sud Sudan, Salva Kiir, di mediare il conflitto in corso in Etiopia. Kiir ha accettato l’incarico. Il premier etiope Abiy Ahmed ha trascorso il capodanno con i militari etiopi perché ha dichiarato «tutto il nostro esercito agisce per la nazione e tutto il Paese è con l’esercito».

La stagione delle piogge sta finendo e questo potrebbe dare un ulteriore impulso al conflitto: il capodanno è arrivato, ma il nuovo in Etiopia ancora non si vede.

* Fonte: Fabrizio Floris, il manifesto[1]

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