Il governo afghano nasce vecchio, intanto a Kabul botte e spari contro le proteste

Il governo afghano nasce vecchio, intanto a Kabul botte e spari contro le proteste

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Talequali. Nella capitale almeno 500 persone contro l’ingerenza pachistana Esecutivo «esclusivo»: a 4 dei Guantanamo Five incarichi di prestigio

Ieri in Afghanistan è stata una giornata di proteste, coraggio, ma anche di repressione e di annunci importanti. Nel tardo pomeriggio, il portavoce dei Talebani Zabihullah Mujahid ha reso nota la composizione del nuovo governo che, ha precisato un altro esponente del movimento, si chiamerà Emirato islamico d’Afghanistan, come il precedente negli anni Novanta.

L’ANNUNCIO ERA PREVISTO da giorni, ma è avvenuto poche ore dopo la violenta repressione di importanti manifestazioni che si sono tenute a Kabul e a Herat, capoluogo dell’omonima provincia occidentale. Nella capitale afghana, sono state almeno 500 le persone scese in strada. Guidata da ragazze e donne, la protesta si è snodata lungo le vie di Kabul prima che un gruppo di militanti islamisti la disperdesse con la violenza. Botte, percosse, spari prolungati in aria. Minacce ai giornalisti, a cui sono state sottratti e confiscati gli strumenti di lavoro. Diversi reporter sono stati prelevati, interrogati, per poi essere rilasciati – quasi tutti – dopo qualche ora. Mentre l’intelligence dei Talebani scattava foto alle manifestanti, forse per «occuparsene» più avanti.

Emblematiche alcune scene delle proteste, a Kabul ed Herat: uomini armati che puntano il fucile contro donne e ragazze che manifestano in modo pacifico e che coraggiosamente affrontano a testa alta i comandanti militari o i ragazzini con il fucile in mano. Per i Talebani si tratta di proteste alimentate dall’esterno, frutto di manipolazioni e interferenze indebite. Non rappresentano il Paese e non verranno più tollerate. Per chi manifestava, l’interferenza invece è quella di Islamabad. Erano tanti i cori diretti contro il Pakistan, tradizionale sponsor dei turbanti neri.

UNA DELLE MICCE che ha accesso le proteste, più partecipate rispetto a quelle dei giorni scorsi, è stato l’arrivo a Kabul del generale che guida il servizio segreto militare del «Paese dei puri». Per una parte dell’Afghanistan, se l’amministrazione Ghani, caduta il 15 agosto, era un «governo fantoccio» degli americani, il nuovo governo è «fantoccio del Pakistan». Non basta rivendicare sovranità, per averla. E non basta il monopolio della violenza per avere consenso e legittimità. A giudicare dalla formazione del nuovo esecutivo, i Talebani non sembrano preoccuparsi molto della legittimità agli occhi della comunità internazionale. A più riprese, hanno sostenuto di voler insediare un governo inclusivo, ma hanno finito per includere soltanto chi è parte del movimento, marginalizzando l’area che aveva rapporti più solidi con Teheran, che già due giorni fa denunciava l’aggressione militare nella valle del Panjshir.

IL FRONTE per la Resistenza nazionale ha condannato il nuovo governo come illegittimo, la sua composizione come «un chiaro segno della ostilità del gruppo verso il popolo». Si tratta di un governo molto politico e poco tecnico, ha ammesso anche il portavoce dei Talebani Mujahid. Un esecutivo che riflette una visione egemonica del potere. Per 20 anni o quasi i Talebani hanno sostenuto di non voler monopolizzare il potere, ma le scelte fatte indicano il contrario. È un governo prevalentemente pashtun, l’etnia maggioritaria del Paese. Ci sono 2 ministri tagici e 1 uzbeco, ma questo non sarà sufficiente a rassicurare le minoranze etniche e politiche del Paese. Ed è un governo di mullah, con scarse competenze di gestione amministrativa.

Difficile immaginare che possa riuscire a gestire le istituzioni di un Paese da 35 milioni di abitanti, con problemi enormi. Governo «esclusivo», tutto targato Talebani, è composto da 33 ministri, di cui almeno 10 hanno fatto parte della delegazione che ha strappato a Washington l’accordo bilaterale firmato a Doha nel febbraio 2020.

Tiene insieme vecchia e nuova guardia, componente politica e militare e include diversi nomi considerati come terroristi dalle Nazioni Unite o dagli Usa. Non proprio un buon modo per accreditarsi agli occhi della comunità internazionale. La massima autorità rimane di tipo religioso ed è quella dell’Amir al-Mumineen, la guida dei fedeli, Haibatullah Akhundzada. Ma l’esecutivo politico sarà guidato da mullah Mohammad Hassan Akhund.

Rappresenta la continuità e la longevità del movimento dei Talebani, di cui è stato tra i fondatori. Originario di Kandahar, al tempo dell’Emirato degli anni Novanta era ministro degli Esteri e vice del primo ministro. Dopo la caduta del regime ha guidato la Rabhari shura, il Consiglio della leadership, massimo organo di rappresentanza politica.

CONTERÀ MOLTO anche il suo vice, mullah Abdul Ghani Baradar, che abbiamo imparato a conoscere come volto diplomatico del movimento. Alla difesa, mullah Yaqub, figlio del fondatore mullah Omar e già capo della Commissione militare, mentre il ministro dell’Interno è Sirajuddin Haqqani, sulla cui testa pende una taglia da 5 milioni di dollari del Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti, che lo considera un terrorista. Al di là delle etichette, rimane il più alto rappresentante degli Haqqani, autori degli attentati più sanguinosi condotti nel Paese.

Quattro dei cinque cosiddetti «Guantanamo Five» vengono premiati con incarichi di prestigio. Catturati nel 2001 quando tentarono una resa negoziata, sbattuti a Guantanamo, sono stati rilasciati nel 2014 in cambio del rilascio da parte dei Talebani del sergente americano Bowe Bergdahl. Ora, come anticipato su questo giornale, hanno posizioni di potere: mullah Khairullah Khairkhwa alla Cultura e informazione, Abdul Haq Waseq capo della temuta Intelligence, mullah Fazel Mazlum, già a capo dell’esercito dei Talebani, vice ministro della Difesa, mullah Norullah Nuri agli Affari tribali e di confine. Uno dei dossier più complicati, quello delle migrazioni, viene affidato a Khalil-ur-Rahman Haqqani, anche lui considerato un terrorista e con una pesante «taglia» sulla testa.

* Fonte: Giuliano Battiston, il manifesto



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