Clima. A Glasgow una lunga notte per un difficile compromesso
Cop26. Tempo scaduto, a Glasgow slitta la chiusura. Frenetiche trattative tra gli stati per un difficile (ma non impossibile) accordo sul clima
La terra può attendere. Una notte, perché i negoziati proseguono, al di là della deadline delle 18 di ieri, dopo 12 giorni di discussioni la Cop si allunga a oggi, come è già successo nel passato (e non è una garanzia di successo). Un anno, più probabilmente, se verrà almeno accettata la proposta di «rivedere» nel 2022 – al rialzo, è sottinteso – gli impegni nazionali, per «far restare in vita 1,5 gradi», come è ripetuto ancora ieri da molti ministri. O anche più anni, visto che secondo l’Accordo di Parigi la «revisione» è ogni 5 anni.
IERI SERA, LA PRESIDENZA britannica ha ripreso in mano la bozza di accordo per emendarla, dopo che quella redatta della notte tra giovedì e venerdì non ha ricevuto l’accordo di tutti – alla Cop si vota all’unanimità, ci sono 196 paesi più la Ue. L’accordo sul clima deve essere trovato tra paesi in forte tensione geopolitica e economica. Boris Johnson ha fatto esplodere il telefono, ha parlato con molti leader, Draghi compreso.
MOLTI PAESI PARLANO di «passi avanti». Ma il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, è in allarme: ci sono «annunci incoraggianti – ha detto – ma non sufficienti», contro una «minaccia devastante» di riscaldamento climatico e «mancanza di finanziamenti» per farvi fronte, soprattutto per i paesi più poveri.
Dei passi avanti sono stati fatti, a parole: c’è ormai un’approvazione comune della necessità di rispettare 1,5 gradi di riscaldamento climatico entro fine secolo rispetto all’epoca pre-industriale (un miglioramento rispetto «al di sotto dei 2 gradi» di Parigi, anche se nei fatti, mantenendo le promesse di oggi, ci saranno +2,4 gradi).
Per la prima volta in un vertice Onu dal 1995 le energie fossili sono citate come parte del problema, i 12 paesi della Boga (Beyond Oil and Gas Alliance) si sono impegnati a chiudere il rubinetto di gas e petrolio. L’uscita dal carbone è ormai considerata inevitabile, ci sono anche delle date, ma non di tutti e dappertutto. La Cina, per esempio, accetta lo stop ai finanziamenti esteri di centrali a carbone, ma all’interno ne apre una nuova ogni 4 giorni, come conseguenza della penuria di energia in un periodo di ripresa economica post-Covid.
CI SONO I PAESI PRODUTTORI di petrolio e gas, che hanno remato contro con tutte le forze (già al G20 di Roma Arabia Saudita, Cina, Russia, Australia, India, non avevano firmato). Alleati di fatto con l’industria fossile occidentale, che sta mostrando una volta di più che nel nostro mondo la potenza economica tiene sotto controllo quella politica.
I PRINCIPALI OSTACOLI da superare in queste ore supplementari sono: 1) come e quando uscire dalle energie fossili, quale calendario per mettere fine alle sovvenzioni, che a tutt’oggi sono di centinaia di miliardi l’anno, mentre la bozza promette il blocco dei soli «finanziamenti inefficaci»; 2) se e come rafforzare i piani nazionali (Nationally Determined Contributions) entro il 2022; e, grosso problema, 3) chi finanzia cosa, la seconda bozza prevede un raddoppio dei finanziamenti per l’adattamento. I «vulnerabili» ricordano, con disperazione, che per loro è una questione «di vita o di morte», che non sono responsabili del riscaldamento climatico ma sono in prima linea per subirne le conseguenze, tra tempo estremo e rialzo delle acque dei mari.
C’È UN’INTESA DI MASSIMA per raddoppiare entro il 2025 le sovvenzioni per l’adattamento. «Bisogna mettere i soldi sul tavolo» dice Boris Johnson. Ma l’occidente confonde le acque, calcola gli aiuti in generale come sovvenzioni per il clima e intanto ha rimandato al 2023 il rispetto della promessa dei 100 miliardi l’anno, fatta 12 anni fa, mai mantenuta e ora chiaramente insufficiente (i ricchi esprimo «profondo rammarico» nella bozza non ancora approvata).
La Ue resta prudente e defilata. Peggio ancora la Cina, che si pone nella posizione di leader dei paesi in via di sviluppo (malgrado contesti agli Usa il posto di prima economia mondiale) e critica i «ricchi» perché non accettano di finanziare le «compensazioni».
L’OCCIDENTE SOSTIENE che Pechino ha tutti i mezzi per partecipare al finanziamento dell’adattamento. L’occidente, inoltre, rifiuta la richiesta dei paesi poveri per un «fondo separato» per compensare le vittime di «perdite e danni»: si aprirebbe il rischio di contenziosi giuridici internazionali. Già nella bozza di giovedì c’era stato un annacquamento dei termini rispetto alla prima stesura: l’impegno di 1,5 gradi è attenuato dalla frase «tenendo conto delle circostanze nazionali differenti», che può voler dire che i vulnerabili possono fare meno sforzi perché non sono responsabili, ma anche la Cina ne può approfittare (la Cina è il numero uno oggi per le emissioni di Co2, ma nel passato non era responsabile come le nazioni industrializzate).
LA FRANCIA, CHE GIÀ ha aderito alla Boga, ieri ha firmato l’accordo per mettere fine ai finanziamenti pubblici all’estero su progetti per energie fossili. Parigi ha raggiunto l’intesa perché i termini, ripresi dalla bozza di accordo generale, sono annacquati: riguardano i progetti che non prevedono un dispositivo di attenuazione delle emissioni di Co2.
LA BOZZA PRECISA che la risposta all’urgenza climatica è insufficiente, poiché le emissioni di Co2 aumenteranno del 14% entro il 2030, mentre dovrebbero diminuire del 45% per rispettare 1,5 gradi. E per di più, molti paesi imbrogliano e comunicano dati errati: la bozza di conclusioni promette «più trasparenza».
* Fonte: Anna Maria Merlo, il manifesto
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