Serbia. Sul litio scontro ambientalisti e governo

by Alessandra Briganti * | 24 Dicembre 2021 9:33

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Belgrado. La marcia indietro del premier serbo Aleksandar Vucic dopo le proteste in tutto il Paese contro lo sfruttamento della miniera di litio da parte di Rio Tinto. Ritirata tattica in attesa delle elezioni?

La corsa al nuovo oro ha subìto una pesante battuta d’arresto, ma vincere una battaglia non equivale a vincere una guerra. E così il passo indietro del presidente serbo, Aleksandar Vucic, dinanzi alle proteste esplose in tutto il Paese contro il progetto di sfruttamento della miniera di litio da parte di Rio Tinto, potrebbe essere una ritirata tattica in attesa dell’assalto finale.

EPICENTRO DELLE PROTESTE è Loznica, cittadina della Serbia nord-occidentale al confine con la Bosnia-Erzegovina. Qui, nella valle del fiume Jadar, sono custodite le più grandi riserve di litio in Europa e tra le più grandi al mondo, elemento essenziale nella produzione di batterie per le auto elettriche. La spinta alla decarbonizzazione ha accelerato i piani della multinazionale anglo-australiana che già da tempo aveva puntato gli occhi sulla valle del Jadar. E così dopo un’esplorazione lo scorso anno dei territori intorno a Loznica del valore di 200 milioni di dollari, Rio Tinto è passata all’azione, annunciando un investimento da 2,4 miliardi di dollari per la costruzione di quella che si ritiene sarà la più grande miniera di litio nel continente europeo.

LE STIME DELLA SOCIETÀ SONO da capogiro: secondo quanto rivelato dal Guardian, dalla miniera verrebbero estratti circa 2,3 milioni di tonnellate di carbonato di litio all’anno e 160mila di acido borico, materiale impiegato per la costruzione di pannelli solari, ad esempio. La miniera sarebbe in grado di fornire litio in quantità tale da garantire la produzione di un milione di veicoli elettrici all’anno, la nuova frontiera dell’auto motive.

UNA MANNA dal cielo inattesa per la Serbia, la cui produzione di litio potrebbe generare miliardi di dollari di entrate per il Paese e centinaia di posti di lavoro. Una manna dal cielo anche per l’Europa, costretta ad importare il nuovo oro da Australia, America Latina e Cina. Non è un caso che nel suo viaggio di commiato nei Balcani, la cancelliera tedesca, Angela Merkel, abbia sottolineato proprio la dimensione europea dell’affaire litio serbo: in ballo non c’è solo l’interesse tedesco, ma quello dell’Ue nel suo insieme, ha spiegato Merkel, ricordando l’importanza della neutralità climatica nelle politiche europee. Più entrate, più posti di lavoro, più autonomia nella lotta al cambiamento climatico, quindi: ma il progetto Jadar rappresenta davvero tutto questo? Per gli ambientalisti le cose stanno diversamente.

AD ALIMENTARNE i dubbi sono da una parte la reputazione della multinazionale, implicata in diversi casi di corruzione, violazione di diritti umani e disastro ambientale; dall’altra l’impatto della miniera sull’ambiente. Secondo la professoressa di Chimica Ambientale dell’Università di Belgrado, Dragana Dordevic, intervistata dal Guardian, lo sfruttamento della miniera di litio nella valle del Jadar si tradurrà nella produzione complessiva di 57 milioni di tonnellate di rifiuti. A questo vanno aggiunti danni per più di 145 specie protette nell’area e un utilizzo di acqua talmente elevato da mettere a rischio i bacini dei fiumi Drina e Sava. Un prezzo troppo alto da pagare sull’altare di un capitalismo selvaggio che ha fatto carta straccia dei diritti sociali ed ambientali soprattutto in una regione, come quella dei Balcani, in cui la debolezza dello Stato di diritto ha lasciato comunità e cittadini privi di tutele dinanzi agli abusi del mercato, oltre che della politica.

E COSÌ ALL’ENNESIMA prevaricazione, la Serbia ha reagito con l’unica arma a sua disposizione: la piazza. Il mese scorso il governo aveva presentato due proposte di legge che avrebbero spianato la strada al progetto di Rio Tinto. Con la prima, si intendeva ridurre a cinque giorni i termini per ricorrere contro l’esproprio di terreni in aree interessate da grandi investimenti. L’obiettivo era vincere le resistenze di quanti si oppongono alle pressioni della multinazionale che ha già comprato circa l’80% dei terreni interessati dal progetto.

CON LA SECONDA, si proponevano delle modifiche allo strumento referendario, imponendo una tassa per la raccolta delle firme, abbassando la soglia del quorum necessario per rendere valida la consultazione, e prevedendo, infine, la possibilità di ripetere il referendum sullo stesso tema ogni anno. Un modo, questo, per sbarrare la strada al referendum, promesso dallo stesso Vucic per placare la prima ondata di proteste che aveva attraversato il Paese la scorsa estate. Il tentativo del governo di disinnescare la bomba ambientalista forzando la mano (e la legge), si è rivelato però un boomerang: per settimane migliaia di manifestanti sono scesi in piazza in tutta la Serbia per tentare di fermare i piani dell’esecutivo. Immagini che hanno fatto il giro del mondo, costringendo Vucic ad un clamoroso passo indietro.

DOPO AVER DENIGRATO le proteste, bollate come ‘politiche’ e fomentate da ‘attori stranieri’, Vucic si è detto in parte d’accordo con le motivazioni dei manifestanti. Risultato: ritiro della proposta di legge sull’esproprio e inserimento delle modifiche richieste dai movimenti in quella sul referendum. La mossa di Vucic, però, ha tutta l’aria di essere più una tregua che una resa. In primavera la Serbia andrà di nuovo alle urne e quello per il presidente serbo sarà il vero banco di prova. Specie se, per la prima volta da quando è al potere, dovrà confrontarsi con un’opposizione degna di questo nome. Per ora il litio può aspettare.

* Fonte: Alessandra Briganti, il manifesto[1]

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