La Corte penale internazionale contro i golpisti del Myanmar

by Emanuele Giordana * | 23 Febbraio 2022 10:02

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Contro la giunta il processo per il massacro dei rohingya alla Corte internazionale di giustizia e una nuova mobilitazione nel primo anniversario delle manifestazioni seguite al golpe nel febbraio 2021. Si muove anche l’Ue: quarto ciclo di sanzioni a società e membri del governo golpista

 

Un Paese che si ferma per protestare nonostante le minacce. I generali golpisti alla sbarra alla Corte di Giustizia dell’Aja con l’accusa di genocidio. La decisione della Ue di colpire i grandi gruppi industriali del Paese. L’ultimo schiaffo della giunta militare al tentativo negoziale dei Paesi vicini.

È una settimana importante per il Myanmar quella che si è aperta lunedì con il procedimento che vede imputato Tatmadaw, l’esercito birmano, con un’accusa di genocidio contro la comunità rohingya e che è proseguita ieri con un ennesimo sciopero nazionale nel Paese delle mille pagode. Ma andiamo con ordine.

Ieri si è manifestato in piccoli gruppi in varie parti del Paese sfidando le minacce delle autorità di arrestare chiunque si unisse alle manifestazioni anti giunta. La giornata – il 22 del 2 del 2022 – segnava l’anniversario della cosiddetta «Rivoluzione dei 5-2» dello scorso anno con un massiccio sciopero generale a livello nazionale contro Tatmadaw tre settimane dopo il golpe del primo febbraio. La protesta di ieri è così diventata un nuovo appuntamento chiamato dei 6-2.

Lunedì è stata invece la prima giornata del procedimento aperto alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja (Icj, il principale organo giudiziario delle Nazioni unite) su richiesta del Gambia che vede imputato il Myanmar per genocidio sul dossier rohingya, una comunità in gran parte espulsa in Bangladesh nel 2017 quando non uccisa o torturata in Myanmar dove ne restano 600mila.

Gli avvocati birmani hanno chiesto l’archiviazione del caso: la corte dell’Onu non avrebbe giurisdizione in quanto non è un caso tra Stati poiché il Gambia ha agito per conto dell’Organizzazione della cooperazione islamica che non lo è. Inoltre perché non esiste una controversia legale tra i due Paesi. I legali del Gambia risponderanno oggi alla ripresa delle udienze.

Ma il processo ha sollevato un caso perché molti osservatori hanno sostenuto che accreditare i militari come rappresentanti del Myanmar equivale a riconoscere de facto il golpe. All’inizio dell’udienza però, il presidente della corte, giudice Joan Donoghue, ha osservato «che le parti in un caso controverso davanti alla corte sono Stati e non particolari governi».

Quanto all’esecutivo clandestino birmano (Nug), che avrebbe voluto essere chiamato in causa, ha al contempo chiarito di non volersi opporre al giudizio della corte come, prima del golpe, volevano invece fare i legali del Myanmar sin dalla prima udienza cui si era presentata Aung San Suu Kyi nel 2019 e come ora chiedono i golpisti.

Sempre lunedì, Il Consiglio europeo ha adottato un quarto ciclo di sanzioni al Myanmar. Misure che prendono di mira altre 22 persone e quattro entità, inclusi esponenti del governo e società statali che forniscono risorse sostanziali al Tatmadaw o società private strettamente legate ai vertici militari: si tratta di Htoo Group, Ige (International Group of Enterpreneurs), Mining Enterprise 1 (ME 1) e Myanma Oil and Gas Enterprise (Moge).

Le misure restrittive – informa una nota – si applicano ora a un totale di 65 persone fisiche e 10 entità e includono congelamento di beni e divieto di negoziare fondi e transazioni con persone cui è impedito entrare o transitare nel territorio della Ue.

Domenica invece la giunta militare ha respinto la richiesta dell’inviato speciale dell’Asean (dieci Paesi del Sudest asiatico) di incontrare esponenti del governo clandestino (Nug) che secondo Tatmadaw sono terroristi. Il ministro degli Esteri cambogiano Prak Sokhonn ha in mente un viaggio in marzo, ora però messo in dubbio dall’ennesimo rifiuto dei militari che non sembrano voler tenere aperto nemmeno il più tenue spiraglio negoziale.

 

* Fonte/autore: Emanuele Giordana, il manifesto[1]

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