Le altre guerre. In Yemen bombardamento saudita

Le altre guerre. In Yemen bombardamento saudita

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Medio Oriente. I ribelli attaccano Gedda, poi propongono una tregua. Riyadh risponde: sette yemeniti uccisi. Dal 26 marzo 2015 l’operazione sunnita ha colpito 24mila volte il più povero dei paesi del Golfo: in sette anni di guerra 377mila vittime, di cui il 70% bambini e il 60% morti per fame e malattie. Onu senza fondi: «Dobbiamo scegliere: nutrire gli affamati o chi sta già morendo»

 

Ci voleva la Formula 1 per ricordare che ieri cadeva il settimo anniversario dell’operazione «Tempesta decisiva», offensiva militare a guida saudita ed emiratina (con la sua coalizione sunnita di volenterosi) contro lo Yemen e il movimento Ansar Allah, braccio politico dei ribelli Houthi.

Decisiva non lo è stata, efferata sì. Con il suo bagaglio di 377mila morti – il 70% bambini secondo l’Onu e due terzi per cause indirette: fame e malattie – e quattro milioni di sfollati interni, la guerra prosegue senza soluzione di continuità.

Venerdì ha sfiorato il Gran Premio di Formula 1 di Gedda. La pista non era il target dei missili Houthi lanciati verso l’Arabia saudita: nel mirino c’era una stazione di distribuzione petrolifera della compagnia saudita Aramco, il North Jiddah Bulk Plant, deposito di diesel, benzina e gas che rifornisce la seconda città del regno e immagazzina un quarto delle riserve saudite. Ha preso fuoco.

SEDICI ATTACCHI, calcola la coalizione, di cui uno a una decina di chilometri dalla sede del torneo automobilistico, gli altri verso le regioni centrali e orientali saudite. A riprova del livello di tecnologia militare ormai raggiunto da Ansar Allah, sostenuto dietro le quinte dall’Iran e in grado da tempo di colpire Emirati e Arabia saudita dove fa più male, generalmente gli impianti petroliferi.

Lo dice la coalizione stessa: «L’escalation ostile prende di mira le strutture petrolifere», ha detto il portavoce, il generale saudita Turki al-Malki, «per influenzare la sicurezza delle rotte energetiche» e minare «l’economia globale».

RIYADH NON HA PERSO tempo, rappresaglia immediata: ieri ha dato ai ribelli Houthi un ultimatum di appena tre ore per ritirare le armi dall’aeroporto di Sana’a, la capitale yemenita controllata dal settembre 2014 dal gruppo, e dai due porti di Hodeidah e Saleef, tra le zone contese con il governo ufficiale dello Yemen, da otto anni in esilio a sud.

Ma soprattutto ha fatto quel che sa fare meglio (dopotutto dal 2015 ha compiuto 24mila raid aerei): bombardare la capitale e Hodeidah, mentre a Gedda le auto da corsa si preparavano a sfrecciare senza turbamenti (ma solo dopo, fa sapere l’Associazione dei piloti, la Gpda, «il dibattito sulle varie opinioni» dei team).

Ieri la coalizione ha spiegato di voler avviare un’operazione militare nell’operazione militare, con l’obiettivo di neutralizzare ogni minaccia diretta alle strutture petrolifere ed energetiche, attraverso azioni mirate «nei governatorati di Sana’a e Hodeidah». Proseguirà fino a missione compiuta.

Ha chiesto ai civili di mantenersi a distanza dai possibili target, depositi di armi e strutture petrolifere Houthi. Ma i civili sarebbero già vittima: tra venerdì e ieri i jet sauditi avrebbero preso di mira anche aree residenziali della capitale, riporta la tv al-Masirah, vicina ai ribelli, e l’ufficio del welfare statale, uccidendo sette civili e ferendone quattro nel distretto di Sanhan, tra cui donne e bambini.

COLPITO ANCHE il quartiere di al-Haffa, sud-est di Sana’a, a poca distanza dalla sede della principale compagnia energetica yemenita. Il cielo si è colorato del grigio scuro del fumo sprigionato dai target dei raid, panorama ormai abituale in Yemen.

A Hodeidah, secondo gli Houthi, sono state centrate infrastrutture energetiche al porto, in violazione – spiegano – del cessate il fuoco del 2018 che, riconoscendo l’importanza dello scalo per lo sbarco di aiuti ai civili, avrebbe dovuto renderlo una zona franca dalla guerra.

Proprio Sana’a e Hodeidah sarebbero al centro della proposta di cessate il fuoco e di colloqui di pace mossa a Riyadh da Ansar Allah, secondo quanto riportato ieri all’Afp da un funzionario saudita anonimo: «Gli Houthi hanno presentato un’iniziativa attraverso mediatori che include una tregua, l’apertura del porto di Sana’a e del porto di Hodeidah e discussioni yemeniti-sauditi».

L’ennesima escalation, se si passa l’espressione visto che la crisi è strutturale da anni, arriva dopo l’annuncio del Consiglio di cooperazione del Golfo: a Riyadh ospiterà colloqui tra le parti, dal 29 marzo al 7 aprile. Ansar Allah ha risposto che non andrà, la location non è neutrale ma ostile.

TRABALLANO anche gli sforzi delle Nazioni unite che, attraverso il nuovo inviato speciale Hans Grundberg, avevano lanciato a inizio marzo un round di colloqui ad Amman con cento yemeniti, in rappresentanza di partiti politici e società civile. L’Onu puntava a una «tregua umanitaria nel mese sacro di Ramadan», inizio previsto il primo aprile prossimo.

Il dialogo è indispensabile, vista la vicendevole incapacità delle parti di vincere la guerra. Ma appare lontano, mentre cadono nel vuoto gli appelli dell’Onu e delle organizzazioni internazionali che hanno visto costantemente assottigliarsi i finanziamenti globali (nel 2021 il World Food Programme ha chiesto 3,85 miliardi, ne ha ricevuti appena la metà).

A fine febbraio il direttore del Wfp, David Beasley, aveva avvertito: con la guerra in Ucraina e il crollo della produzione di grano, in Yemen «non abbiamo altra scelta che togliere il cibo agli affamati per nutrire chi sta già morendo di fame. Sarà l’inferno in terra».

* Fonte/autore: Chiara Cruciati, il manifesto



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