Niente pace sulle spese militari, Conte resiste e Draghi sale al Quirinale
EFFETTO UCRAINA. Nell’incontro con il leader 5S resta il disaccordo. Il premier furioso riferisce a Mattarella. E a sera non esclude lo showdown in aula
Premier ed ex premier a confronto e se tra i due una certa elettricità si registra sempre stavolta la tensione è alle stelle perché il dissenso è esplicito e su un capitolo tanto pesante quanto l’innalzamento delle spese militari e di conseguenza anche il rapporto con la Nato. Faccenda molto seria, tanto che subito dopo il colloquio, finito con un franco disaccordo, Draghi sale al Colle per informare il capo dello Stato sullo stato delle cose nella maggioranza. Un Draghi furioso come in pochissime altre occasioni, forse nessuna da quando è presidente del Consiglio.
L’INCONTRO È ANDATO male, anzi malissimo. Il premier ha messo sul tavolo l’argomento chiave: in ballo ci sono i rapporti con l’Alleanza atlantica nella fase più delicata dal 1945 in poi. Draghi è ultimativo: «In un momento simile gli impegni assunti non possono essere messi in discussione». Gli impegni sono l’innalzamento progressivo della spesa militare fino a toccare il 2% del Pil e del resto è quel che i governi hanno fatto sinora, tanto che dal 2018 al 2021, proprio con Conte premier, la spesa per le armi è aumentata del 17% e poi, nell’ultimo anno e senza guerra in corso, ancora del 5,6%. Ma l’asso di bastoni che il premier cala è un altro: «Se quegli impegni con la Nato fossero rimessi in discussione verrebbe meno il patto che tiene insieme la maggioranza». Altrimenti detto, sarebbe la crisi.
Conte però non molla. Assicura, come ripeterà a incontro concluso, che gli accordi con la Nato non sono in discussione e che il Movimento non mira alla crisi di governo. Ma sull’aumento immediato della spesa, Paese per Paese e senza un quadro europeo definito, il pollice resta verso: «Quella sarebbe una corsa al riarmo». Quando in qualche modo si arriverà a votare il pollice del M5S, come quello di LeU, sarà piegato all’ingiù. Il governo e la maggioranza, con il prezioso aiuto di una Meloni riciclatasi come iperatlantista, sono in effetti impegnati soprattutto nell’evitare che a quel momento della verità, cioè al voto, si arrivi.
IERI NELLA RIUNIONE congiunta delle commissioni Difesa ed Esteri del Senato, era in discussione l’ordine del giorno di FdI. Dice quel che vorrebbero dire governo, Pd, Fi e con maggior prudenza anche Lega e Iv se non ci fossero di mezzo i 5S e LeU: si dia subito corso all’impegno di innalzare la spesa. Il governo decide di dare parere positivo, di fatto facendolo proprio. I proponenti, pur avendo l’occasione perfetta per mettere in luce la spaccatura della maggioranza, non chiedono di votare il loro testo: «Non vogliamo mica fare dispetti alla maggioranza». In effetti l’intenzione è opposta, è dare una mano al governo accreditandosi così, non solo agli occhi dell’Italia, come partito di provata fede atlantista. A chiedere il voto sono M5S e LeU ma la presidente della commissione Difesa, la Pd Pinotti, lo nega e la decisione, in assenza del presidente della Esteri Petrocelli, spetta a lei. Lo strappo è clamoroso, la decisione di negare il voto su un odg richiesto dalla principale forza della maggioranza e del parlamento è inaudita ma la linea sbrigativa, di schietto stampo militare, adottata dal Pd è questa.
LA TENSIONE S’IMPENNA, i 5S furibondi diramano un comunicato da campo di battaglia: «È inaccettabile che il governo abbia deciso di accogliere l’ordine del giorno di Fdi malgrado la forte contrarietà della principale forza di maggioranza e senza voto. Insisteremo sulla richiesta di metterlo ai voti». Ma quando domani il dl Ucraina, in discussione a palazzo Madama dalle 18 di oggi, arriverà ai voti il rimpiattino proseguirà: il governo quasi certamente porrà la questione di fiducia, che implica la decadenza degli odg, proprio per evitare il voto. A meno che Draghi non decida di sfidare i 5S mettendoli di fronte al bivio secco tra resa e crisi di governo. Ieri sera il governo dava ancora la scelta in bilico, con solo il 50% di probabilità di scegliere la fiducia. Neppure sul Def, che sarà varato la settimana prossima, è previsto un voto sul nodo della spesa militare. Il Documento rinvierà tutto alla legge di bilancio. Ma se il governo, in un momento come questo, deve campare sui sotterfugi per evitare il voto è segno che di ossigeno gliene rimane poco.
* Fonte/autore: Andrea Colombo, il manifesto
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