Geopolitica. Con la guerra tornano ricatti e blocchi, mentre si riduce la democrazia

Geopolitica. Con la guerra tornano ricatti e blocchi, mentre si riduce la democrazia

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La guerra, o anche la semplice minaccia di guerra, “giusta” o ingiusta che sia, comporta sempre una riduzione della democrazia e un ridimensionamento della vita civile. Questa estraneità della geopolitica alle ragioni della democrazia deve essere messa nel conto se non si vogliono falsare i risultati del calcolo

 

L’allargamento dei blocchi contrapposti e delle alleanze militari con la conseguente progressiva erosione dello spazio della neutralità non è certo segno di buona salute dell’assetto globale. Come non lo fu il fallimento del tentativo dei Non allineati negli anni Cinquanta e Sessanta. L’abbandono di questo spazio da parte della Finlandia e della Svezia, cogenti o meno che ne siano le ragioni, non è una buona notizia. Ma è la reazione della Turchia alla volontà di questi paesi di aderire alla Nato e della Nato di accoglierli a indicarci brutalmente lo stato di coazione e di ricatti incrociati in cui le relazioni internazionali vengono sempre più strettamente ingabbiate.

Ankara pone il suo veto rimproverando a Helsinki e Stoccolma il rifugio assicurato ai militanti delle organizzazioni curde che il governo turco ritiene terroristiche e l’appoggio alla regione autonoma curda di Rojava oggetto di costante aggressione da parte dell’esercito di Erdogan che mira esplicitamente al suo annientamento. Che si tratti, se non di un pretesto, di una ragione secondaria rispetto all’intento di fare un favore alla Russia di Putin, con la quale Ankara non esita a relazionarsi oculatamente nel suo gioco espansionistico nel Mediterraneo, è più che un semplice sospetto. Tutta questa vicenda ci mostra come il clima bellicoso che alimenta la contrapposizione dei blocchi implichi, per i paesi che vi partecipano, un ridimensionamento dei propri punti di vista, delle proprie convinzioni democratiche, dello spazio concesso allo stato di diritto e ai diritti umani. Un cedimento dei paesi scandinavi alle pressioni turche costituirebbe un fatto di estrema gravità.

Come, del resto, già lo è la promozione della Polonia omofoba, autoritaria e ultranazionalista, a campione di difesa dei “valori occidentali” e la sospensione di ogni critica nei confronti del governo oscurantista di Varsavia. Intanto, il solito Victor Orban, oppone il suo veto all’embargo sul petrolio russo a dimostrazione delle continue grane che l’allargamento ad Est dell’Unione europea e le insidie del nazionalismo che vi alberga portano con sé. Una lezione che può servire a illuminare anche il futuro del Vecchio continente.

Questo groviglio di furibonde contraddizioni dovrebbe render chiaro un elemento che la stucchevole retorica sui “valori occidentali” e sul limpido scontro tra libertà democratica e dittatura si sforza di occultare. E cioè che con la geopolitica la democrazia e i diritti non c’entrano per nulla. Lo sappiamo fin dal “terribile dialogo” tra i Melii e gli Ateniesi, riportato da Tucidide nella Guerra del Peloponneso, che si svolge, non a caso, lontano dalle orecchie del popolo che ne soffrirà il tragico epilogo. E la politica americana nel mondo, nonché quella sovietica, durante e dopo la guerra fredda non hanno fatto che confermare questa estraneità, fino alla complicità o all’indifferenza della geopolitica per gli orrori commessi. Si tratta di due piani diversi, talvolta decisamente contrapposti, nel cui scarto sono incistate le evidenti differenze di interessi tra l’Europa e gli Stati uniti. Sullo scacchiere geopolitico è il rapporto di forze con la sua potenza egemone quello che conta e il rapporto tra governanti e governati risulta decisamente sbilanciato a favore dei primi. La guerra, o anche la semplice minaccia di guerra, “giusta” o ingiusta che sia, comporta sempre una riduzione della democrazia e un ridimensionamento della vita civile. Questa estraneità della geopolitica alle ragioni della democrazia deve essere messa nel conto se non si vogliono falsare i risultati del calcolo.

Alla fine di Aprile Jürgen Habermas era intervenuto sul settimanale Zeit a sostegno della prudenza del Cancelliere Scholz riguardo al possibile coinvolgimento della Germania in una escalation militare del conflitto tra Russia e Ucraina. Oltre alla ragionevole constatazione che la “sconfitta” di una superpotenza nucleare è cosa difficile da immaginare al di fuori di un quadro catastrofico, il filosofo francofortese invitava l’occidente ad affrontare un difficile dilemma. Quello che mette su un piatto della bilancia il diritto di Kiev a combattere per la sua integrità, libertà e autodeterminazione avvalendosi del sostegno occidentale, e sull’altro la necessità di scongiurare l’innesco di un conflitto nucleare dai contorni imprevedibili a partire da quello stato prolungato di belligeranza in Europa che non dispiacerebbe a Washington. Attirandosi così l’incredibile accusa, se non di fare il gioco del Cremlino, di coltivare comunque l’egoismo del benessere tedesco.

Questa esigenza di ponderato equilibrio andrebbe invece riproposta, sebbene su un piano diverso, in tutti quei paesi che si sono dimostrati troppo facilmente disponibili a sacrificare alla logica dei blocchi e dell’escalation militare le proprie esperienze storiche, il rigore dei propri principi costituzionali e i passaggi che in una democrazia compiuta limitano il decisionismo governativo. Fino a quel grottesco eccesso di zelo che si è occasionalmente tradotto nella messa al bando dell’arte e della cultura russa nel loro insieme. Sul modello dello scontro di civiltà in versione talebana.

* Fonte/autore: Marco Bascetta, il manifesto



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