Draghi. La storia dell’implosione del governo dei «migliori»

Draghi. La storia dell’implosione del governo dei «migliori»

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PATADRAG. Dopo la rielezione di Sergio Mattarella al Quirinale la crisi del “governo di larghe intese” e “senza formule politiche” si è scatenata. Veti incrociati, maggioranze variabili, tiri mancini, tutti contro tutti: dal green pass, al catasto fino al «reddito di cittadinanza». Italia Viva non ha votato la riforma Cartabia, La Lega era «pronta a tutto contro Cannabis e Ius scholae», i Cinque stelle attaccati per non avere votato il “Decreto Aiuti”. La crisi di un sistema che voleva coniugare politiche opposte nelle mani di un nocchiero che ha perso la strada. Poi il crollo

 

Dopo la rielezione al Quirinale di Sergio Mattarella l’implosione del governo di «unità nazionale», e «senza formule politiche» guidato da Mario Draghi è stata lenta e inesorabile. Il suo esecutivo avrebbe dovuto sciogliere le differenze politiche tra le varie forme del populismo (di destra e di sinistra, neoliberale e tecnocratico, alto e basso) in un’unità guidata da un esperto nocchiero. È finita diversamente. Negli ultimi sei mesi, a seguito della crisi economica esplosa con la guerra russo-ucraina che si è sommata a quella pandemica mai finita, la maxi-maggioranza è stata squassata da spinte contrapposte e inconciliabili arrivate da tutte le parti « non solo dai Cinque Stelle che non hanno partecipato alla fiducia sul «Decreto Aiuti».

PRENDIAMO, ad esempio, la Lega che il 21 febbraio scorso ha votato in commissione Affari sociali della Camera con Fratelli d’Italia e Alternativa (Forza Italia astenuta) l’eliminazione del green pass dopo il 31 marzo. Allora fu il Movimento 5 stelle a salvare il governo. Pur tentato di votare l’emendamento della Lega, rientrò nelle file della maggioranza. Draghi inghiottì il rospo sebbene la settimana precedente avesse ripreso i capidelegazione dopo il rodeo sul decreto milleproroghe quando la sua maggioranza aveva votato quattro emendamenti, creando maggioranze variabili, contro il parere del governo. Lo scontro era simbolico. Il governo avrebbe eliminato poco dopo le restrizioni fino al punto da non lasciarne nessuna. Poi è arrivata una nuova ondata di Covid, versione Omicron, in piena estate. Ma, nel frattempo, l’epidemia è stata cancellata per decreto dal governo «dei migliori».

SOSTENITORI del verbo chiamato «Piano nazionale di ripresa e resilienza» (Pnrr), tutto il «centro-destra di governo», dunque Forza Italia e non solo la Lega, non ha tollerato la riforma del catasto o la liberalizzazione delle concessioni balneari o del servizio pubblico di trasporto non di linea (i taxi) contenuti nel decreto concorrenza. Sono due pilastri del piano che dovrebbe permettere all’economia di tornare a «volare» entro il 2026, ma non ora. Su questa idea, ispirata a un’economia dell’offerta, è stato costruito il governo Draghi. Ma è stata percepita come un attacco a settori con interessi consolidati. La guerriglia è stata intensa e, come si è ascoltato ieri in Senato, ha sfiancato Draghi che non ha tollerato la sponda offerta da leghisti e forzisti ai «balneari» o ai tassisti che protestavano contro un rischio di deregolamentazione del settore.

IN POCHI hanno prestato attenzione alla denuncia del Forum Acqua secondo il quale il Ddl concorrenza «è un manifesto ideologico che, dietro la riproposizione del mantra “crescita, competitività, concorrenza”, si prefigge una nuova ondata di privatizzazioni di beni comuni»: acqua, energia, trasporto pubblico locale, sanità e servizi sociali e culturali, fino ai porti e alle telecomunicazioni. «È un attacco – dicono gli attivisti – complementare a quello già portato avanti con il disegno di legge sull’autonomia regionale differenziata». Quella che ieri Draghi ha sventolato in aula per attrarre l’attenzione dei leghisti, forzisti e di ampi settori del Pd.

ANCHE ITALIA VIVA ha partecipato al progressivo svuotamento politico del governo. È accaduto quando si astenne sulla riforma Cartabia del Csm (16 giugno). «Una riforma che è più inutile che dannosa – scrisse Matteo Renzi – Siamo gli unici che non abbiamo votato a favore», mentre «Lega e Pd, grillini e Forza Italia hanno trovato un compromesso». Tutti hanno espresso perplessità per la sua portata, ma il testo è stato votato per timore di un «affossamento». Draghi è andato avanti ma non è riuscito a fare di necessità virtù.

COLTELLATE alle spalle sono diventati la regola tra gli «alleati» quando, il primo luglio, il governo ha dato parere favorevole all’emendamento al «Decreto Aiuti» di Fratelli d’Italia, votato da Lega e Forza Italia, e dai dimaiani appena fuoriusciti dal Movimento 5 Stelle. Il Pd si è allineato. Il testo ha attribuito ai datori di lavoro privati il ruolo dei centri dell’impiego: togliere il «reddito di cittadinanza» ai beneficiari che rifiutano un lavoro «congruo». Inapplicabile, ha ricordato la sottosegretaria all’Economia Maria Cecilia Guerra in un’intervista a Il Manifesto. Ma utile per dare uno schiaffo ai Cinque Stelle che, va ricordato, hanno accettato un peggioramento del «reddito» già nella legge di bilancio 2021.

I PIÙ ALLINEATI al «draghismo», come il Pd, hanno sventolato le loro insegne proponendo lo «ius scholae», sapendo che non sarebbe mai stato approvato. La Lega ha presentato 1500 emendamenti per impedire il riconoscimento della cittadinanza ai minori nati da genitori stranieri, arrivati entro il 12 anno di età in Italia, che completano un ciclo di studi. Se fosse stato approvato a Montecitorio, insieme a un provvedimento sulla cannabis, avrebbe creato un Vietnam al Senato. Mai, hanno giurato le destre al governo e all’opposizione, alleate in maniera opportunistica, sarebbero stati approvati. Per Draghi, come per il Ddl Zan, anche questo non era un problema del governo «che non ha voluto entrare nelle vicende parlamentari». La crisi del sistema politico ha travolto anche questi diritti.

* Fonte/autore: Roberto Ciccarelli, il manifesto



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