Cile. 11 settembre, un giorno amaro per le sinistre

by Claudia Fanti * | 11 Settembre 2022 8:41

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1973-2022, L’ALTRO 11 SETTEMBRE . 49 anni fa il golpe contro il «sogno» di Allende, Oggi l’esito disastroso del plebiscito cambia lo scenario e i rapporti di forze. Strada in salita per l giovane governo Boric, che a forza di concessioni rischia di perdere pezzi

Per le sinistre, il 49mo anniversario del colpo di stato che si commemora oggi in Cile non potrebbe essere più amaro. Invece del sogno di Salvador Allende – i «grandi viali per dove passerà l’uomo libero per costruire una società migliore» – è ancora la brutale realtà dell’eredità di Pinochet a dominare la scena.

DOPO LE GRANDI SPERANZE di trasformazione suscitate dall’estallido social dell’ottobre 2019; dopo le aspettative, già un po’ ridimensionate ma pur sempre confortanti, sorte dalla vittoria del «plebiscito di entrata» del 2020 e dal successivo avvio dei lavori della Convenzione costituzionale (per di più presieduta da attivista mapuche e con forte partecipazione dei movimenti sociali); dopo la nascita di un governo il cui programma, se rispettato, avrebbe potuto cambiare il volto del paese; dopo una stagione politica, insomma, tumultuosa e feconda, la clamorosa, inappellabile bocciatura della nuova Costituzione al plebiscito del 4 settembre appare molto più di una semplice battuta di arresto.

Sarà forse eccessivo affermare che «è risorto Pinochet», come il presidente colombiano Gustavo Petro ha commentato di fronte al trionfo del Rechazo, ma di certo la destra ha molto da festeggiare. E può ben dire il senatore di Revolución Democrática Juan Ignacio Latorre che «il risultato del plebiscito non è la vittoria delle destre» e queste «farebbero molto male i loro conti se credessero che i milioni di persone che si sono espresse per il No hanno votato per loro». La sostanza, comunque non cambia: Chile Vamos, la coalizione dei partiti di destra e di centro-destra, può ora passare all’incasso, consapevole di avere a questo punto il coltello dalla parte del manico.

NON A CASO le forze conservatrici stanno già alzando il livello dell’asticella delle pretese, puntando a vincolare i negoziati sul “secondo tempo” del processo costituente all’interno del Congresso al dibattito sulle riforme strutturali alla base del programma governativo di Boric, a cominciare da quelle più emblematiche: la riforma del sistema delle pensioni e quella tributaria. Un programma che finora il governo aveva portato avanti con scarsa convinzione proprio in attesa di quello straordinario trampolino di lancio che una vittoria al plebiscito avrebbe sicuramente rappresentato.

E per quanto Marco Velarde, presidente di Comunes (uno dei partiti del Frente Amplio), si affanni a precisare che la «cittadinanza ha votato per un determinato programma e, al di là del risultato del plebiscito, questo programma deve essere rispettato», il rapporto di forze è indubbiamente cambiato. Tant’è che il senatore di Renovación nacional Francisco Chahuán ha già messo le cose in chiaro: se Gabriel Boric vuole portare avanti le sue riforme, ha affermato, dovrà sedersi a negoziare con l’opposizione.

E COSÌ IL GOVERNO, già consapevole, in mancanza dei voti necessari sia alla Camera che al Senato, di dover fare concessioni, rischia ora di dover sacrificare veramente troppo. E, con ciò, di perdere pure importanti pezzi della sua coalizione, considerando che il senatore comunista Daniel Núñez ha già chiarito che, se il programma originario non dovesse venir rispettato, il suo partito deciderebbe di uscire dal governo.

Ma se per il programma di Boric la strada è tutt’altro che agevole, per la Costituzione 2.0 a cui si dovrà ora dare la luce le prospettive sono addirittura sconfortanti. Perché, se la Convenzione costituzionale, malgrado i paletti fissati dall’establishment e le enormi difficoltà incontrate lungo la strada, aveva saputo comunque produrre un testo non privo di compromessi ma dai tratti sicuramente innovativi, la nuova proposta di Costituzione – a cui si giungerà con ogni probabilità attraverso nuove elezioni – si fermerà al massimo a metà strada tra quella appena bocciata e quella, «scritta da quattro generali» (Boric dixit) attualmente in vigore.

QUANTO AL MOVIMENTO popolare, gli risulterà molto difficile, secondo l’intellettuale militante uruguayano Raúl Zibechi, «riprendere l’iniziativa». La politica «dal basso», quella «di strada», è stata, ha affermato, duramente sconfitta. E «il centro del dibattito si sposta ora all’interno del parlamento, dove dominano la destra e la vecchia casta progressista che ha iniziato a governare già 30 anni fa promuovendo il neoliberismo». Né è un buon segnale che la protesta degli studenti universitari e delle secondarie per una migliore educazione, iniziata martedì scorsa, sia stata repressa dai carabineros esattamente come sotto il governo Piñera.

* Fonte/autore: Claudia Fanti, il manifesto[1]

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