Gli Stati Uniti hanno anticipato di qualche mese l’arrivo nelle basi europee della versione aggiornata (assai più versatile) delle sue armi atomiche B61-12. La notizia è riportata da Politico. Accompagnata da un laconico commento del Pentagono, il cui portavoce ricorda come si tratti di un programma di ammodernamento deciso da anni, per cui non è il caso di discutere i dettagli.

La notizia è intesa a «rassicurare gli alleati europei» sull’efficacia dell’ombrello nucleare: non un passo indietro davanti al ricatto nucleare con cui la Russia di Putin punta a consolidare le annessioni territoriali, scardinando i principi basilari dell’ordine internazionale. Proprio per questo, non può però essere disgiunta dal contesto della guerra in Ucraina.

Non solo in questi giorni il dispiegamento delle nuovi B61-12 accompagna l’intensificarsi delle minacce nucleari russe (con corollario di grande esercitazione nucleare Nato, a cui Mosca risponde simulando un attacco nucleare massiccio); occorre anche ricordare come l’ammodernamento degli arsenali e la crisi del dialogo strategico fra Washington e Mosca costituiscano una delle radici più profonde del conflitto.

La svolta avviene dopo 9/11, con l’avvento al potere dei neoconservatori di cui si circonda George W. Bush nel partito repubblicano: perseguendo l’idea dell’invulnerabilità strategica americana nel quadro della war on terror globale, i neocon considerano la Russia una potenza irreversibilmente degradata. L’immagine della Russia come marginale – potenza del passato – è funzionale al venir meno, da parte americana, dell’idea che sia utile, o prudente, mantenere inibizioni nello sviluppo della propria potenza militare nel quadro di un negoziato bilaterale con Mosca.

Gli Usa escono dal trattato sulle difese missilistiche (Abm); nel 2007 Putin esce dall’accordo sulle armi convenzionali in Europa. Dopo un breve, faticoso tentativo di riallacciare il dialogo (Obama e Medvedev firmano l’accordo New Start nel 2010; con la presidenza Trump le preoccupazioni repubblicane si rivolgono alla Cina, mentre i russi lanciano nuovi programmi militari: saltano un po’ tutti i meccanismi multilaterali e bilaterali. In sostanza, la narrazione proposta dai repubblicani americani rappresenta il controllo bilaterale degli armamenti come un ambito obsoleto, sopravvissuto a se stesso e non più nell’interesse della sicurezza degli Stati Uniti.

A sua volta, sotto la guida di Putin, Mosca investe per anni sulla ripresa economica e militare come premessa per consolidare l’influenza nello spazio ex-sovietico ed arginare l’allargamento Nato, denunciando l’egemonia americana come forma di parassitismo. Russia e Stati Uniti possiedono insieme oltre il 90% di tutte le armi nucleari presenti sul pianeta. Il problema è che mentre si erodeva l’interesse di Washington e Mosca per il dialogo sul disarmo bilaterale, il progresso tecnologico ha eroso alcune fondamentali distinzioni su cui si regge, per i noti paradossi, la tradizionale logica della deterrenza.

La velocità e l’agilità dei missili ipersonici rischiano di rendere obsolete le difese missilistiche esistenti e future. Una maggiore flessibilità di impiego delle armi, unita alla riduzione del tempo di risposta degli stati nucleari, incoraggia l’uso preventivo della forza. Il fatto che i nuovi vettori consentano un utilizzo duale (convenzionale o nucleare) rende difficile l’identificazione della minaccia rispetto ai tempi su cui è tarata la capacità di deterrenza attuale, e questo crea un incentivo ad affidarsi a sistemi di intelligenza artificiale e dinamiche algoritmiche che minimizzano il ruolo del fattore umano.

In questo contesto di continua trasformazione ed erosione degli standard operativi, nessuno sembra poter prevedere oggi con esattezza gli effetti di una mossa sulla scacchiera nucleare.

Recentemente il Segretario alla Difesa Usa Lloyd Austin ha informato gli alleati europei di come la revisione della dottrina nucleare Usa – la pubblicazione è attesa a giorni -, resterà imperniata sulla nozione di «ambiguità calcolata», contrariamente al fatto che Joe Biden aveva dichiarato che il solo scopo dell’arsenale nucleare fosse la deterrenza di attacchi nucleari. Una novità che non può che essere letta in relazione agli scenari di guerra ucraini, o meglio al continuo agitare lo spettro nucleare da parte del Cremlino. La plausibilità di una relativa affermazione dei repubblicani nelle imminenti elezioni di midterm proietta ulteriore incertezza: si intravede uno scenario in cui gli Stati Uniti, contro il parere della Casa bianca, continuano ad investire su programmi missilistici (sottomarini) voluti da Trump, mentre pongono condizioni al sostegno militare alla difesa ucraina, tirando il freno.

L’Italia è tutt’altro che estranea a queste dinamiche di crescente incertezza, non solo per la significativa presenza di armi nucleari sul proprio territorio, ma anche, in senso più ampio, per il suo impegno nelle sedi multilaterali (v. le tensioni diplomatiche con Mosca nei giorni scorsi, per l’esclusione dei russi da un tavolo di esperti in materia di proliferazione). La crisi dell’agenda internazionale di disarmo, nucleare incluso, si accompagna all’assottigliarsi del consenso europeo e all’affermarsi di un atlantismo in chiara salsa nazional-conservatrice, su modello polacco. Le incertezze a cui ci espone il riarmo delle democrazie richiedono un sussulto di partecipazione ampia e diffusa a partire dai movimenti per la pace, ben distinto da chi – a ben vedere – propone negli Usa come da noi più spesa militare e l’’appeasement col nzionalismo putiniano.

* Autore del libro “Frontiera ucraina., guerra geopolitiche e ordine internazionale” uscito in questi giorni (Il Mulino)

* Fonte/autore: Francesco Strazzari, il manifesto