Cina. Congresso del PCC, sordo ai problemi del popolo
Il leader cinese si appresta a governare fino a quando vorrà ritirarsi. Ma ora che ha messo la sicurezza nazionale in testa alle priorità del Paese, il partito dovrà affrontare la questione economica. E fare i conti con una società sull’orlo di una crisi di nervi per gli ostinati lockdown
Dopo settimane di rumors, di voci, di dicerie, finalmente comincia il XX Congresso del Partito comunista cinese. E per una volta l’anomalia, la sorpresa, non arriva da uno scandalo tutto interno al Partito, ma da due striscioni appoggiati su uno dei tanti ponti pedonali della capitale, nel distretto di Haidan. Nel primo c’era scritto: «Vogliamo cibo, non covid test, vogliamo riforme, non la rivoluzione culturale, vogliamo libertà, non i lockdown, vogliamo il voto, non un leader, vogliamo dignità, non bugie, siamo cittadini, non schiavi». Quello accanto, per chi non avesse inteso bene il messaggio del primo, recitava così: «Rimuovere il dittatore Xi Jinping».
Tutto abbastanza clamoroso, considerando anche i livelli di sicurezza che raggiunge Pechino nei giorni che precedono il Congresso. Ovviamente la censura sul web si è subito mossa, molti account su WeChat che hanno usato le parole proibite (pure «Pechino», pare) sono stati sospesi.
La domanda in questi casi è sempre la stessa: quanto questa sensazione che serpeggia di una società sull’orlo di una crisi di nervi possa sfociare in qualcosa di massa e non solo in sporadiche proteste come questa (o quelle che abbiamo visto a Shanghai).
La sensazione è che Xi Jinping – che pure si appresta con molte probabilità a uscire ancora più potente dal Congresso – in questi dieci anni abbia finito per ricacciare il Partito dove era esattamente dieci anni fa, cioè distante dalla popolazione. E che il Partito venga così percepito come una sorta di organizzazione clanistica para mafiosa che fa i propri interessi e non ha alcuna considerazione della popolazione.
Da un lato il Partito sembra insistere con i suoi riti, dall’altro prosegue imperterrito – in modo quasi testardo – con politiche sociali ed economiche che non stanno risolvendo alcun problema. E che anzi, è il caso della politica “dinamica” Covid Zero, sta esacerbando gli animi e sembra ormai una fissazione della dirigenza giusto perché quella politica è di Xi Jinping e quindi diventa intoccabile.
Il Partito ha sempre basato la sua forza, e tutto sommato la sua legittimità, sulla capacità di percepire i sentimenti della popolazione e di rimediare a errori. Ora siamo di fronte a una situazione in cui o è sordo per una sua involuzione o fa finta di niente.
Negli ultimi giorni i media statali hanno infatti pubblicato, di nuovo, pubbliche lodi alla politica di contenimento del Covid senza porsi alcun problema per la vita delle persone che ormai da tempo sono totalmente in balia di questa policy.
La Cina ha sempre avuto la forza di sperimentare, diversificare e provare a vedere quale soluzione fosse la migliore “tra” un ventaglio di opzioni.
Se poi proprio al Partito non interessasse quello che sta provando – sui propri corpi – la popolazione, c’è un dettaglio non da poco che dovrebbe richiamare a qualche forma di attenuazione della policy: il rischio economico all’orizzonte.
Come ha scritto Yanzhong Huang su Foreign Affairs,«a differenza di quasi tutti gli altri paesi del mondo, la Cina continua a perseguire severi controlli alle frontiere, isolamento aggressivo dei contatti stretti, chiusure improvvise di aeroporti e spazi pubblici e blocchi improvvisi di quartieri e persino di interi comuni. Avendo scommesso un enorme capitale politico sulla strategia Zero Covid, la leadership cinese è restia a cambiare rotta, in particolare alla vigilia dell’importantissimo 20° Congresso nazionale del Partito Comunista Cinese (…). Città dopo città, i funzionari stanno perseguendo misure eccessivamente dure nel tentativo di evitare focolai che potrebbero mettere in imbarazzo il governo».
nnn
Al di là infatti del probabile mandato a vita per Xi, perché la situazione è tale che, senza indicare alcun successore, Xi si appresta a governare fino a quando vorrà ritirarsi, c’è da chiedersi come il Partito affronterà prima di tutto il nodo economico, tanto più dopo che Xi stesso ha posto la questione della sicurezza nazionale come priorità rispetto alla tenuta economica.
La Bank of China ha fatto stime pessime, addirittura una crescita del 3,5%, la disoccupazione aumenta, i giovani sembrano sempre più delusi dalla situazione economica e sociale e lo scenario internazionale è piuttosto fosco.
Per questo, nei giochi di incastro del Congresso, dovremo tentare di scrutare le figure di sfondo. In particolare vedere se avanzeranno quei funzionari che dal punto di vista economico potrebbero provare a cambiare la rotta del paese; Wang Yang, ad esempio, dato come possibile premier ha fama di riformatore, benché abbia fatto di tutto per accreditarsi come fedele di Xi.
E poi c’è l’esercito dei tecnocrati 2.0 promossi dallo stesso Xi: nati negli anni ’60 e cresciuti nell’epoca delle Riforme. Potrebbero essere loro a cambiare, con molto tatto e calma, il paese. Ma qualcuno, prima di allora, di sicuro si brucerà
* Fonte/autore: Simone Pieranni, il manifesto
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