Cina. Lavoratori «prigionieri» di Foxconn in rivolta

Cina. Lavoratori «prigionieri» di Foxconn in rivolta

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Scontri fra operai e forze di sicurezza della fabbrica che produce metà degli iPhone del mondo. Dove è divampato un focolaio. All’origine della protesta il mancato pagamento dei bonus promessi e la diffusione del virus nello stabilimento. I video dei disordini bucano la censura e circolano sui social

Il malcontento sociale in Cina per la strategia Zero Covid è ormai evidente e supera persino i limiti imposti dalla rigida censura cinese. Il maxi stabilimento di Foxconn a Zhengzhou, nell’Henan, è diventato il teatro di scontro tra centinaia di dipendenti della fabbrica e il personale di sicurezza. Dopo le promesse mancate da parte del colosso dove viene prodotta la metà degli iPhone del mondo, circa 200 dei 300mila operai dell’azienda sono venuti alle mani con il personale incaricato di riportare l’ordine. La fabbrica era già finita sotto i riflettori lo scorso mese quando i dipendenti, che vivono nei dormitori e mangiano all’interno del campus della Foxconn, sono fuggiti dopo che si è diffusa la notizia dell’arrivo di un lockdown a seguito di un focolaio scoppiato nel maxi-stabilimento. I lavoratori hanno preferito ritornare nelle proprie abitazioni per evitare di trascorrere la quarantena all’interno della fabbrica in base alle regole Zero-Covid, iniziando il loro lungo viaggio a piedi, camminando su autostrade e campi mentre trasportavano coperte, borse e altri effetti personali.

MA FOXCONN, per scongiurare il blocco delle attività produttive di uno dei prodotti tra i più venduti durante il Black Friday e le festività natalizie, ha proposto un bonus a chi sarebbe rimasto in sede: un contributo una tantum di 500 yuan (69 dollari) e un aumento di stipendio di 4 dollari l’ora per i dipendenti che sarebbero stati affiancati da 100mila nuovi lavoratori. Le promesse del colosso tecnologico non sono però state mantenute. Nella giornata di ieri si è palesata l’ennesima frustrazione dei cinesi costretti a pagare l’alto prezzo del ricatto di un’azienda che decide di portare avanti l’obiettivo della produttività all’interno di una bolla sanitaria.

ALL’ORIGINE della violenta protesta di ieri sembra esserci il mancato pagamento dei bonus promessi e la diffusione dell’infezione nello stabilimento: l’azienda avrebbe cambiato le condizioni, imponendo ai dipendenti di rimanere nello stabilimento fino a marzo, e perdere il compenso in caso di positività al Covid. Anche i nuovi assunti hanno lamentato la precaria condizione di convivenza con i loro colleghi più vecchi per il timore di contrarre il virus. Ma c’è anche il malcontento per le difficili condizioni igieniche nello stabilimento e la scarsità di cibo e altri generi di prima necessità. L’azienda si è difesa dalle accuse, dichiarando di aver rispettato i termini di pagamento degli stipendi e di aver osservato le regole per il contenimento del Covid. Dopo le violente rivolte, Foxconn ha promesso di dare a ogni lavoratore appena assunto 10mila yuan (circa 1.400 dollari), per lasciare immediatamente lo stabilimento nel tentativo di porre fine alle violente proteste.

ALCUNI VIDEO circolati sui social network e che sono riusciti a superare per un attimo la censura cinese mostrano centinaia di dipendenti scontrarsi con le forze di sicurezza dell’azienda, vestite con tute protettive, o abbattere le barriere installate per delimitare le aree per l’isolamento. Quelli più allarmanti raccontano di come la polizia e il personale sanitario abbiano fatto ricorso a gas lacrimogeni e violenza per reprimere le proteste. Tuttavia, le ricerche del termine “Foxconn” sui social media cinesi ora producono pochi risultati, indice di una pesante censura.

LE RIVOLTE testimoniano le enormi contraddizioni della strategia Zero Covid imposta dal governo cinese, che continua a creare ripercussioni economiche e sociali in tutto il paese. I cinesi sono sempre più stufi di quasi tre anni di restrizioni e la protesta nella fabbrica Foxconn di Zhengzhou arriva quando nel paese si registra un picco di casi e conseguenti chiusure: nelle ultime 24 ore, almeno 29mila nuovi contagi hanno fatto tremare il governo di Pechino che ha rivisto recentemente la politica Zero Covid, suggerendo alle autorità locali di evitare di introdurre lockdown generalizzati e di continuare con i test di massa. Proprio nella città che ospita il maxi stabilimento di Foxconn è arrivato l’ennesimo passo indietro: le autorità sanitarie condurranno dal 25 al 29 novembre test a tappeto per il Covid-19 in otto distretti, dove gli abitanti sono tenuti a osservare l’isolamento domiciliare. Le chiusure imposte per la strategia di contenimento del virus continuano a produrre contrazioni del fatturato per le aziende del paese. Dopo l’Oms, arriva l’allarme del Fmi che ha esortato la Cina a rivedere la sua strategia Zero Covid e ad aumentare i tassi di vaccinazione. Pechino ascolterà?

* Fonte/autore: Serena Console, il manifesto

 

ph by SACOM, CC BY-SA 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0>, via Wikimedia Commons



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