Le multinazionali di produzione di olio di palma come Naisa, REPSA e Industrial Chiquibul, hanno preso di mira i terreni pianeggianti e fertili della culla maya per farne monoculture intensive e articolare un sistema di lavorazione della materia prima direttamente nella zona.

Oggi il Guatemala è il sesto produttore al mondo di olio di palma e l’indotto legato a questa produzione rappresenta il 2% del PIL del paese. L’80% dei quantitativi prodotti viene destinato all’esportazione, soprattutto in Nord America ed Europa rendendo il piccolo paese centroamericano il terzo esportatore al mondo per quantitativi commercializzati. Il 60% dei 180.000 ettari di piantagioni del paese si concentrano nella regione nord del Petén.

La sostenibilità di questa produzione[1] pantagruelica è garantita da un accaparramento costante dei terreni appartenenti alle comunità indigene locali. I metodi utilizzati dai produttori oscillano tra l’acquisizione speculativa e la pressione violenta.

Secondo la organizzazione per i diritti indigeni La Otra di Flores (Petén), solo nel 2022 si sono registrati quattro sfratti forzosi di comunità indigene nel paese a causa dell’accaparramento di terra da parte delle aziende di palma africana. Due tra i più gravi e violenti sono tutt’ora in corso nelle regioni dell’Estor e del Petén.

«Le grandi aziende di palma africana applicano quasi sempre la stessa tecnica – racconta Yudi, rappresentante de La Otra e attivista per i diritti indigeni in Guatemala -, comprano a buon prezzo le concessioni ancestrali dei contadini che si trovano ai lati della strada asfaltata e poi chiudono l’accesso alle concessioni interne che restano senza passaggio. Il Codice Civile guatemalteco prevede il diritto di accesso per i terreni preclusi ma nella pratica questo diritto non è garantito e le aziende bloccano il passaggio. Così, i contadini lasciati senza accesso sono costretti a vendere la propria terra. Peraltro, a un prezzo stracciato».

È quello che è successo nella comunità di Las Camelias nei pressi di Sayaxché, tra le aree del Petén più interessate dalla produzione di olio di palma per la vicinanza ai fiumi La Pasión e Salinas. Dopo aver acquistato circa dieci chilometri di concessioni ai bordi della strada provinciale 11, l’azienda Naisa ha installato delle guardiole agli ingressi delle stradine di accesso sterrate e costretto i contadini proprietari dei terreni interni a chiedere il permesso per raggiungere i propri campi ogniqualvolta fosse necessario. La giustificazione di facciata è la necessità di rendere sicure le proprie piantagioni, la realtà è ben diversa.

Julio Tut Sub è un contadino di origine q’echì della comunità di Las Camelias, ex guerrigliero delle FAR e padre di cinque figli. Nel 2015 ha ricevuto la visita del primo funzionario della Naisa con una proposta di acquisizione dei suoi terreni situati a circa cinque chilometri dalla strada principale. «E se vendo la terra cosa lascio ai miei figli? Quando l’ingegnere della Naisa è venuto a incontrarmi nella comunità gli ho risposto così – ammette Julio mentre con lo sguardo accarezza gli arbusti di cacao appena piantumati . Lui mi ha detto che non avevo scelta e che se mi fossi rifiutato ancora avrebbero mandato le guardie di sicurezza dell’impresa a far del male alla mia famiglia. Io ho risposto che li avrei aspettati con il fucile in mano. Per tre volte mi ha ripetuto se fossi sicuro della decisione di non voler vendere e per tre volte ho risposto che li avrei aspettati col fucile in mano. Sono stato combattente nella guerriglia guatemalteca, non mi lascio intimorire così. Alla fine accettarono la mia decisione, però ancora oggi quando voglio andare al mio campo devo chiedere il permesso alla guardia della Naisa».

La storia di resistenza di Julio è simile a quella di molti altri contadini indigeni della zona. A pochi chilometri da Las Camelias, nella comunità di Santa Elena Rio Salinas, l’Industrial Chiquibul ha imposto lo stesso sistema di accaparramento, aggravato da una campagna di disinformazione finalizzata a instillare nei piccoli proprietari locali la paura che a breve il governo avrebbe costruito una centrale idroelettrica a due passi dalla comunità e che tutti i territori limitrofi sarebbero stati inondati.

Molti abitanti hanno venduto alla multinazionale i propri campi a prezzi ribassati, la centrale idroelettrica non è mai stata costruita e ora la forza lavoro della palmera è costituita principalmente dagli stessi cessionari. È lo scherzo infausto del caso, o più semplicemente la realizzazione del piano machiavellico dell’azienda.

Gli abitanti di Santa Elena Rio Salinas lavorano per la Chiquibul dalle 6 del mattino alle 5:30 del pomeriggio per 90 quetzales al giorno, poco meno di 12euro. Le condizioni di lavoro sono estremamente dure e basta una passeggiata nei corridoi sconfinati di palma per rendersene conto. Quando nel 2020 l’azienda ha annunciato di voler rinegoziare i salari dei dipendenti perché ritenuti troppo alti, la popolazione della comunità è insorta bruciando parte della piantagione e occupando il centro di raccolta della frutta. Alla loro guida c’era Mathias Pop, leader indigeno e uno dei pochi contadini dell’area che non aveva svenduto la terra della propria famiglia alla Chiquibul.

«Quando ho visto i miei compagni imbracciare le zappe e dar fuoco alle palme ho lasciato tutto e sono andato con loro. Io non lavoro nelle piantagioni di palma, ho ancora i miei campi di mais, ma sono a capo del consiglio degli anziani di Santa Elena e questo era il mio dovere – racconta Mathias, seduto su un tronco di mogano tagliato da poco dal figlio -. Per questo la guardia nazionale mi ha arrestato e tenuto in carcere per sei mesi. Poi sono dovuto stare un anno al confino, lontano da casa. Ora sono tornato qui a Santa Elena e faccio ancora parte del consiglio degli anziani. Se dovesse scoppiare una nuova protesta riprenderei la zappa in mano e correrei con i compagni. L’azienda non può fare quello che vuole».

Quanto successo a Las Camelias e Santa Elena si sta ripetendo in questi giorni in maniera pressoché identica nelle comunità di Seinup, nella zona del Chal (Petén), e Chapín Abajo, nella regione dell’Estor, dove un ragazzo di sedici anni è stato ucciso da un proiettile sparato dalla guardia nazionale guatemalteca nel corso degli scontri che hanno fatto seguito allo sfratto forzoso[2].

Queste comunità si trovano in terreni di grande interesse per le multinazionali dell’olio di palma e gli accordi stretti con le autorità locali hanno permesso di superare il dissenso delle persone che le abitano da decenni. Al rifiuto di abbandonare le proprie abitazioni hanno fatto seguito le incursioni dei paramilitari nella notte, con l’uccisione del bestiame e la distruzione delle casupole in legno e paglia. Nonostante questo, le due comunità hanno preferito riaccamparsi con alloggi di fortuna sulle ceneri delle abitazioni appena bruciate. Allora sono intervenuti i militari dell’esercito regolare per cercare una forma di sfratto più “istituzionale”.

Secondo i rappresentanti delle comunità durante gli scontri si sono registrati cinque feriti gravi e la morte di un ragazzo minorenne. Allo stesso tempo, quattro leader comunitari sono stati arrestati nell’Estor con l’accusa di resistenza a pubblico ufficiale e lesioni. Al momento le due comunità stanno negoziando con le autorità locali per cercare nuovi spazi in cui trasferire le proprie famiglie.

«I casi di sfratto non saranno mai pacifici, solo il fatto di autorizzarli senza agevolare il diritto alla difesa, costituisce una violazione dei diritti umani – scrive in una nota ufficiale[3] il Movimento di Organizzazione Sociale e Contadina del Petén -. Mettono la proprietà privata al di sopra del diritto più sacro ad una vita dignitosa e all’uguaglianza. Per questo condanniamo fermamente ogni tipo di sfratto contro una popolazione vulnerabile, abbandonata e impoverita dallo stato del Guatemala. Siamo solidali con la popolazione che soffre angoscia, dolore e disperazione per mano di persone che danneggiano la società».

La lotta per la terra delle comunità indigene guatemalteche è un grido di dignità strozzato quotidianamente dagli accordi economici stretti tra lo stato e le aziende di olio di palma, basati su un neoliberismo feroce incapace di rispettare i più basilari diritti umani.

Quanto sta succedendo nelle comunità di Seinup e Chapín Abajo si somma alle storie di resistenza di Julio e Mathias, e a decenni di lotte in cui i leader comunitari sono stati oggetto di una repressione sanguinaria. Nel silenzio della politica economica internazionale, colpevolmente seduta su un sistema di sfruttamento che continua a riproporre dinamiche coloniali.

«Vogliamo che la nostra voce sia ascoltata e che le autorità internazionali intervengano per difendere i diritti delle popolazioni indigene. Tutto questo avviene perché esiste un mercato globale che lo richiede. È arrivato il momento che anche il cosiddetto primo mondo si assuma la responsabilità dei propri bisogni. Se non smette questo sfruttamento il 50% delle comunità indigene guatemalteche rischia di sparire nei prossimi dieci anni».

Nel grido di Yudi c’è tutta l’urgenza di fare della lotta di Julio, Mathias e delle comunità q’echì guatemalteche una resistenza globale. Quanto troviamo tra gli scaffali dei nostri supermercati è il simbolo di una filiera bagnata d’ingiustizia. Agire di conseguenza è l’unica forma di supporto utile a una lotta per la sopravvivenza.

* Fonte/autore: Guglielmo Rapino, il manifesto[4]