Povertà vecchie e nuove, chi ha bisogno scivola verso la cronicità

by Adriana Pollice * | 29 Dicembre 2022 9:41

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De Capite (Caritas): «Cresce l’utenza del 7% e aumentano anche le persone che non si erano mai rivolte prima ai nostri servizi. Una misura di contrasto alla povertà serve ma va adeguata al contesto, senza ripartire d’accapo»

 

Le lunghe file alle mense nei giorni di Natale sono diventate il simbolo di quella parte di paese che continua a scivolare verso le povertà. Nunzia De Capite, sociologa dell’ufficio Politiche sociali Caritas: «Nelle grandi città nei periodi a ridosso delle feste c’è sempre un aumento dell’affluenza perché alcuni servizi si contraggono, non ci sono ad esempio le mense parrocchiali, e quindi cresce il numero di chi si rivolge alle strutture più grandi. Quest’anno però può aver contributo l’aumento dei prezzi generalizzato. Siamo in un periodo di affaticamento economico per molti, soprattutto per chi versa in condizioni già difficili. E poi i giorni di festa attirano un numero maggiore di persone, c’è voglia di stare insieme anche da parte di chi normalmente non andrebbe in mensa».

IL RAPPORTO CARITAS su povertà ed esclusione sociale dà la misura di quanto la situazione sia difficile: «Nel 2021 la povertà assoluta conferma i suoi massimi storici toccati nel 2020, anno di inizio della pandemia. Le famiglie in povertà assoluta risultano 1 milione 960mila, pari a 5.571.000 persone (il 9,4% dei residenti). L’incidenza è più alta nel Mezzogiorno (10% dal 9,4% del 2020) mentre scende al Nord, in particolare nel Nord-Ovest (6,7% da 7,9%). L’incidenza delle persone straniere si attesta al 55%, con punte che arrivano al 65,7% e al 61,2% nelle regioni del Nord-Ovest e del Nord-Est. Di contro, nel Sud e nelle Isole prevalgono gli assistiti di cittadinanza italiana che corrispondono rispettivamente al 68,3% e al 74,2% dell’utenza».

SE QUESTO È IL QUADRO di partenza, i dati 2022 e le prospettive per il 2023 non sembrano offrire molte speranze: «La situazione non ci lascia ben sperare – prosegue De Capite -. Nel 2021 abbiamo censito 227mila persone, che sono solo una parte di quelli che si rivolgono alla rete Caritas: c’è stato un aumento rispetto all’anno precedete di circa il 7%. Cresce l’utenza e crescono anche le persone che non si erano mai rivolte prima alla Caritas, un trend in aumento dal 2018 che nel 2021 ha raggiunto quota 40%, rimane invece stabile la quota di persone che seguiamo da più di 5 anni: 40% di nuovi poveri e 25% di cronici. Una morsa da cui le persone non riescono a uscire».

GLI INTERVENTI del governo invertiranno la situazione? «Le persone che si rivolgono alla Caritas sono prevalentemente famiglie con figli, con figli minori in particolare (rispettivamente il 64 e il 70%) – spiega De Capite -. Nell’ultima legge di bilancio è stato previsto l’aumento dell’assegno unico per le famiglie con Isee basso. Ci sarà un sostegno pubblico più sostanzioso resta il fatto che la situazione di questi nuclei è critica. Un altro tema che emerge in modo esplosivo è quello della casa: sono anni che abbiamo bisogno di politiche strutturali e anche le previsioni del Pnrr sono parziali. Ci vuole un intervento sull’edilizia residenziale pubblica e sugli affitti. Siamo preoccupati e ci aspettiamo che la situazione non migliori».

E POI C’È IL TEMA DEL LAVORO, nel rapporto Caritas si legge: «Si rafforza nel 2021 la consueta correlazione tra stato di deprivazione e bassi livelli di istruzione. Cresce infatti il peso di chi possiede al massimo la licenza media, che passa dal 57,1% al 69,7%; tra loro si contano anche analfabeti, senza alcun titolo di studio o con la sola licenza elementare. Nelle regioni insulari e del Sud, dove lo ricordiamo c’è una maggiore incidenza di italiani, il dato arriva rispettivamente all’84,7 e al 75%».

DE CAPITE: «Bisogna immaginare percorsi di formazione per persone che spesso sono lontane dal mondo del lavoro e hanno un basso livello di istruzione. Non hanno contratti di lavoro da 1, 2, 3 anni, non hanno qualifiche e hanno perso anche quelle competenze relazionali, le soft skills, così non sanno cercare lavoro e non si sanno neppure approcciare al lavoro. Sono fasce particolarmente deboli che richiedono un accompagnamento per un periodo lungo con percorsi graduali, non un tirocinio di un mese. L’altro intervento andrebbe fatto sulle imprese: servono strumenti di cerniera altrimenti non si crea comunicazione tra domanda e offerta. Il programma Gol (Garanzia occupabilità lavoratori) del Pnrr dovrebbe andare in questa direzione ma dobbiamo aspettare la parte di applicazione delle regioni. Interfacciassi con realtà come la nostra permetterebbe di disegnare dei percorsi formativi che tengano conto della reale situazione di queste persone».

RESTA IL NODO di come intercettare le persone a rischio o già in povertà: «Fondamentale una presenza sul territorio, un lavoro che fanno spessissimo i servizi sociali. Ma negli ultimi anni, e con la pandemia in misura maggiore, si è creata una distanza molto forte tra le persone in condizione di bisogno e il sistema di risposte pubblico. Molti non sanno che aiuti possono ricevere e a chi si devono rivolgere. Un effetto anche del processo di digitalizzazione del sistema di welfare con il passaggio alle piattaforme. Certo, ci sono i Caf e i patronati ma non basta. Alla fine i più esclusi restano fuori dal sistema. Se sei stato in grado di ottenere l’Isee e hai superato i primi ostacoli, alcune cose le hai in automatico: Reddito di cittadinanza, assegno unico, il bonus elettrico. Ma i passaggi iniziali sono un problema soprattutto per i nuovi poveri. L’avvicinamento al sistema di tutele pubblico è un tema che si risolve potenziando gli operatori, una mediazione fondamentale perché avvicina alla Cosa pubblica. Senza, avremo cittadini esclusi, arrabbiati e un forte scollamento sociale».

A PAGARE la mancanza di personale è il Sud e, in generale, le realtà (anche del Nord) in difficoltà. Emblematico il caso della finanziaria del 2020 rispetto ai fondi per le assunzioni degli assistenti sociali nel 2021 (poi corretto nella legge di bilancio successiva): il meccanismo premiava i territori che avevano già un operatore ogni 5mila abitanti, offrendo la possibilità di arrivare a uno ogni 4mila. Mentre bloccava le assunzioni per chi aveva un rapporto inferiore a uno ogni 6.500 abitanti penalizzando chi aveva più bisogno.

È POSSIBILE DISMETTERE il Reddito di cittadinanza se la situazione è questa? «Una misura di contrasto alla povertà serve – conclude De Capite -, c’è in tutti i paesi civili. Il Reddito richiede grossi ritocchi sulla parte dei criteri, delle soglie e serve il rafforzamento dei centri per l’impiego. Va resa adeguata alle situazioni di povertà che ci sono nel nostro contesto nazionale. È un tema che va affrontato a patire dai dati che abbiamo e dai difetti di funzionamento individuati, non c’è bisogno di ripartire d’accapo. Valorizziamo piuttosto quello che già sappiamo».

* Fonte/autore: Adriana Pollice, il manifesto[1]

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