Rapporto Censis. I salari, un’emergenza nel paese impoverito

by Roberto Ciccarelli * | 3 Dicembre 2022 13:07

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La strutturale moderazione salariale ha neutralizzato la spirale con i prezzi

 

Cresce la povertà assoluta, aumentano le diseguaglianze e continuano a diminuire i salari reali. Sono questi gli aspetti materiali che incidono sull’impotenza organizzata di una democrazia che opprime tanto la soggettività (che non è l’individuo) quanto i rapporti sociali alienati in cui essa si riproduce.

È la fotografia fatta dal 56esimo rapporto Censis sulla situazione sociale del paese in cui si mescolano, e si sovrappongono, considerazioni sulla costituzione materiale della società con quelle sulla psiche e sui rapporti inter-personali. Così si associa l’analisi sociologica a un sondaggio impressionistico sulle emozioni ispirate a una elementare psicologia di massa che misura il mondo in base alla metafisica dell’Io «grandioso», come lo definiva Heinz Kohut.

Al di là di questa analisi ampiamente criticate da una letteratura che ha superatol’ impostazione centrata sui «ceti medi», su una società «dei consumi» immancabilmente caratterizzata nei termini del narcisismo, e della sua frustrazione di massa, cerchiamo di ricavare alcuni elementi generali per tratteggiare un sondaggio sulla policrisi capitalistica in cui viviamo.

Il rapporto Censis prospetta l’aumento delle persone in «povertà energetica» che non riescono a mantenere un livello adeguato di riscaldamento casalingo a causa dell’aumento delle bollette e dell’erosione dei salari da parte dell’inflazione all’11,8% nel 2022. Si parla del 5,6% delle famiglie in ritardo con i pagamenti. Poi ci sono i nuclei che versano in uno stato di «povertà relativa» o «assoluta» a causa della sempre più ampia quota di reddito familiare da impiegare per le spese «incomprimibili» per il cibo e il riscaldamento, oltre che per i vestiti e altri beni di prima necessità. Nel campione scelto dal Censis la preoccupazione è alta anche tra le famiglie con status medio-basso (33,1%) e tra le famiglie più agiate (32,3%).

La situazione è osservata dal lato delle imprese. A causa del caro-bollette, si stima che 355 mila aziende (8,1% di quelle attive) potrebbero subire un grave squilibrio tra costi e ricavi. L’86,6% si colloca nel terziario, il 13,6% nel settore industriale. Questa situazione potrebbe influire su 3,3 milioni di addetti (19,2% del totale), di cui il 74,5% nei servizi (2,5 milioni di addetti) e il 25,5% nell’industria (850 mila addetti). Le micro-imprese, specialità del capitalismo italiano, potrebbero soffrire di più. Tra il 2012 e il 2020 le imprese attive si sono ridotte di 15 mila, in particolare tra quelle che impiegano fino a nove addetti (-18.115), mentre le altre imprese più grandi presentano saldi positivi, soprattutto tra quelle che occupano tra i 50 e i 249 addetti (+2.225 imprese).

In questa cornice è interessante ricordare i dati sui salari, Come già ricordato dall’Ocse, e poi dall’Ilo, sono bloccati dagli anni Novanta. Ed è questo il vero problema nella fase attuale dell’economia di guerra. Il 51% dei lavoratori dipendenti è attualmente in attesa del rinnovo contrattuale. Nel settore privato la quota scende al 36,5%. I mesi di vacanza contrattuale vanno dai 35 del settore pubblico ai 31 del settore privato. In ogni caso l’attesa di vedere rinnovato il contratto collettivo nazionale sfiora i 3 anni. In altre parole, è un modo usato dallo Stato, e dai proprietari delle imprese, per risparmiare sulla forza lavoro, e per impoverirla. È uno schema ormai consolidato nel capitalismo italiano, un elemento strutturale che si aggiunge all’esproprio del «plusvalore» costitutivo del rapporto di lavoro.

Nel settore privato si contano oltre 4 milioni di lavoratori che non raggiungono una retribuzione annua di 12 mila euro. Di questi, 412 mila hanno un contratto a tempo indeterminato e un orario di lavoro a tempo pieno. Nel 2021, sul totale degli occupati dipendenti, il 9,7% si trovava in condizioni di povertà relativa. Ne parlavamo su Il Manifesto di ieri a proposito dei dati Istat sull’aumento dell’occupazione a ottobre. Cresce il lavoro «a tempo indeterminato», ma resta povero. Ecco un’altra conferma.

Tra il 2012 e il 2021 l’andamento dei prezzi ha rafforzato la moderazione salariale, e dunque l’intero sistema sociale basato sul lavoro precario e sulla desalarizzazione del rapporto di lavoro. Ciò, osserva il Censis, ha di fatto rimosso qualsiasi rischio di innesco della spirale prezzi-salari. Cioè lo spettro agitato dalle banche centrali, e dai governi, per evitare di aumentare i salari e andare in recessione

* Fonte/autore: Roberto Ciccarelli, il manifesto[1]

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