Lula, niente armi all’Ucraina: «L’unica nostra guerra è contro la povertà»

Lula, niente armi all’Ucraina: «L’unica nostra guerra è contro la povertà»

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Bolsonaro intanto non è chiaro se e quando tornerà. Ed emergono sempre più chiare le sue responsabilità nell’emergenza yanomami

 

«Potrebbe tornare domani, fra sei mesi o anche non tornare più»: così Flávio Bolsonaro ha risposto ai giornalisti sul rientro in Brasile di suo padre, ospite dal 30 dicembre nella lussuosa villa dell’amico lottatore di arti marziali miste José Aldo, a Orlando, in Florida. È rimasto lì con Carlos – sua moglie Michelle e il resto della famiglia sono tornati invece il 26 gennaio – sostituendo a quanto pare il visto diplomatico, che scade oggi, con uno turistico, malgrado le pressioni dei democratici su Biden per non farlo restare negli Usa.

IN CASO DI RITORNO, comunque, si sarebbe già accordato con il suo medico Antônio Macedo per passare dall’aeroporto di Guarulhos direttamente all’ospedale Vila Nova Star. Un classico: ogni volta che si trova in difficoltà – e al momento lo è, indagato per gli atti golpisti dell’8 gennaio -, Bolsonaro si ricovera per le presunte conseguenze della presunta coltellata subita nel 2018, quella che lo aveva fatto magicamente schizzare in alto nei sondaggi. Già il 9 gennaio era stato ricoverato d’urgenza in un ospedale di Orlando a causa di un blocco intestinale: esattamente 24 ore dopo l’assalto ai palazzi delle istituzioni. Non sembra, in ogni caso, che ci sia nulla di urgente, dal momento che non ha nessuna fretta di tornare in Brasile.

Una buona notizia, tuttavia, Bolsonaro l’ha avuta: quella proveniente dal consiglio comunale di Anguillara Veneta, che, malgrado il presidio di protesta organizzato dalle forze di sinistra, ha respinto la richiesta di revocargli la cittadinanza onoraria che gli era stata concessa nel 2021.

MA MENTRE L’EX PRESIDENTE prolunga la sua permanenza negli Usa per capire che aria tira sul fronte giudiziario, nel paese non si è ancora spento il clamore intorno alla tragedia umanitaria – sanitaria, alimentare e ambientale – sofferta dal popolo Yanomani e salita alla ribalta con la visita di Lula in Roraima il 21 gennaio. Se le foto di adulti e bambini ridotti a scheletri hanno fatto il giro del mondo – almeno 570 bambini yanomami sotto i 5 anni sono morti negli ultimi 4 anni di denutrizione, malaria e intossicazione da mercurio -, le responsabilità del governo Bolsonaro sono apparse subito più che evidenti.

Ad accusare l’ex presidente di aver perseguito l’estinzione degli yanomami – così tante sono state le azioni ed omissioni ai loro danni – è stata, per esempio, Joênia Wapichana, prima presidente indigena della Funai, l’agenzia governativa che già attraverso il nuovo nome (Fondazione nazionale dei popoli indigeni, anziché «dell’indio») vuole marcare la differenza rispetto ai tempi del bolsonarismo. Tempi durante i quali, secondo le rivelazioni di Intercept, gli yanomami hanno rivolto 21 disperate richieste di aiuto al governo, al pubblico ministero federale e alla Funai, tutte cadute nel vuoto.

Ma la risposta del governo Lula è stata immediata. Il ministero della Salute ha dichiarato l’emergenza sanitaria, inviando medici in Roraima e allestendo a Boa Vista un ospedale da campo per i casi più gravi. La ministra dell’Ambiente Marina Silva ha annunciato che le risorse del ripristinato Fundo Amazônia serviranno per combattere la crisi umanitaria e la presenza di 20mila garimpeiros nella regione. E oltre 50 funzionari pubblici coinvolti nella violazione dei diritti delle comunità indigene sono stati destituiti.

QUALI SIANO LE PRIORITÀ del suo governo, del resto, Lula lo ha chiarito anche durante una conversazione con Macron giovedì scorso, declinando l’invito a prendere parte alle operazioni contro la Russia: la guerra del Brasile, avrebbe spiegato, è, piuttosto, contro la povertà. E così Lula ha posto il veto alla fornitura di munizioni per i carri armati dal Brasile all’Ucraina, negando peraltro di aver ricevuto una richiesta in tal senso dal cancelliere tedesco Scholz, in visita in Brasile dopo la sua missione in Argentina e Cile.

* Fonte/autore: Claudia Fanti, il manifesto



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