Messico. 39 uccisi nell’incendio del centro per migranti di Ciudad Juárez
Le fiamme appiccate durante una protesta per l’acqua. Le autorità accusate di non essere intervenute tempestivamente
È di 39 morti e 29 feriti il bilancio dell’incendio divampato lunedì intorno alle 22 – ore locali – in un centro per migranti di Ciudad Juárez, città messicana al confine con gli Stati Uniti.
Le fiamme sono divampate nell’area delle celle della struttura, in realtà una vera e propria prigione, che sorge a ridosso del ponte internazionale Lerdo-Stanton, a pochi metri dal fiume Rio Grande che divide la città messicana da El Paso, in Texas. Tutte le vittime sono uomini, maggiorenni, la maggior parte dei quali di nazionalità guatemalteca: a fornire il dato è stato direttamente il governo del Guatemala che ha comunicato la morte di 28 connazionali nel rogo.
«Al momento dell’incendio in quella parte della struttura c’erano 68 migranti», spiega Rocío Gallegos, direttrice del sito La Verdad Juarez, che ha seguito tutta la vicenda dall’esterno della struttura fin dallo scoppio del rogo. «Alcuni di loro erano stati deportati nei giorni scorsi in Messico dagli Stati Uniti ai sensi del titolo 42», misura voluta dall’amministrazione Trump, ufficialmente per limitare la diffusione del covid ma tutt’ora in vigore, per espellere i migranti senza passare per la richiesta d’asilo.
Altri, invece, «erano stati fermati proprio nella giornata di lunedì dagli agenti dell’INM, Instituto Nacional de Migración, in un’operazione effettuata per la città che aveva l’obiettivo di liberare gli incroci stradali dove i migranti sono soliti, per racimolare qualche pesos, pulire i vetri delle auto, vendere dolci o sigaretti o semplicemente chiedere l’elemosina» spiega ancora Gallegos.
Tutto è iniziato intorno alle 21 quando i migranti detenuti nella struttura hanno iniziato a protestare. Il motivo lo spiegano diversi testimoni, come riportano le cronache locali: erano stati lasciati senza acqua dalla mattina. Avevano sete. Diversa la versione ufficiale comunicata dal presidente Obrador che parla di una protesta scattata non appena si è diffusa la voce di un prossimo rimpatrio nel paese di origine per un gruppo di detenuti, come previsto dal titolo 42.
Il gioco che si sta facendo ormai da tempo sulla pelle dei migranti è il seguente: dopo giorni, settimane o mesi di detenzione negli Usa, gli irregolari intercettati dalle autorità statunitensi vengono portati in uno dei tanti punti di frontiera con il Messico. Una volta oltrepassato il confine, vengono presi in carico dagli agenti dell’IMN e confinati in uno dei centri per migranti che sorgono in tutte le maggiori città di frontiera. Qui inizia una seconda detenzione che terminerà soltanto a bordo di un aereo con cui si verrà rimpatriati. In questi centri si resta per un periodo indefinito di tempo. Qui finiscono anche le persone che vengono fermate direttamente in territorio messicano.
Le proteste iniziate alle 21 si sono via via intensificate, fino ad arrivare alla decisione, da parte di alcuni migranti, di dare fuoco ai materassi sperando, così, di convincere gli agenti ad aprire le porte, cosa che invece non è avvenuta per tempo.
Le immagini di diversi video girati all’esterno della struttura mostrano i familiari dei detenuti, soprattutto alcune mogli, urlare tutta la loro rabbia contro le autorità messicane: «È colpa delle polizia migratoria, quello che sta succedendo è colpa loro» è lo sfogo di una migrante venezuelana che stava aspettando il rilascio del marito. Tra i detenuti, infatti, non c’era soltanto chi era in attesa di essere rimpatriato ma anche chi attendeva la chiusura della pratica di ricongiungimento familiare e chi, come nel caso dei cittadini venezuelani, non può invece essere rimandato nel proprio paese di origine per la protezione internazionale di cui gode.
«Non si può morire sotto custodia dello Stato» denuncia Blanca Navarrete, direttrice del DHIA (Derechos Humanos Integrales en Acción). Per questo, ci spiega telefonicamente, «abbiamo indetto per oggi (ieri, ndr) una manifestazione con candele e fiori davanti alla sede dell’Instituto Nacional de Migración. Le indagini devono portare a dei colpevoli: le vittime sono morte per asfissia, non per le ustioni causate dalle fiamme. Com’è stato possibile non procedere con una rapida evacuazione dei migranti una volta scoppiato l’incendio, come invece avvenuto con il personale della struttura?».
Nel mirino, poi, la repressione in corso in città. «Da settimane è in corso una vera e propria caccia al migrante per le strade di Ciudad Juarez» spiega Navarrete. «In molti casi, l’INM si sta avvalendo della collaborazione della polizia dello stato, una cosa illegale in quanto gli agenti non hanno l’autorità per fermare e arrestare persone la cui unica “colpa” è quella di essere senza documenti». Il tutto «arrivando persino a violare i luoghi di culto». Alcuni migranti, il 1° marzo, sono infatti stati arrestati all’interno della Cattedrale di Ciudad Juarez, evento che ha costretto il vescovo José Guadalupe Torres Campos a un duro comunicato stampa contro le autorità cittadine, colpevoli di «violare ogni diritto umano».
* Fonte/autore: Daniele Nalbone, il manifesto
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