Ecuador al voto, anche per cacciare i petrolieri dall’Amazzonia

Ecuador al voto, anche per cacciare i petrolieri dall’Amazzonia

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Nel 2007 il governo di sinistra chiese al mondo 3,6 miliardi ma non li ottenne, e iniziò a estrarre

 

Dopo dieci anni di lotta, i cittadini dell’Ecuador hanno finalmente la possibilità di scrivere la storia. Chiamati oggi a votare per chi succederà a Guillermo Lasso, dovranno decidere anche se «lasciare sotto terra, indefinitamente», il petrolio che si trova sotto l’area del parco nazionale Yasuní nota come Blocco 43 o Itt.

Creato nel 1979 e dichiarato dall’Unesco Riserva mondiale della biosfera nel 1989, il parco, che si estende per 982mila ettari nell’Amazzonia ecuadoriana, è una delle aree di maggiore biodiversità del mondo: in un solo ettaro, i botanici hanno registrato più specie di alberi che negli Stati Uniti e in Canada messi insieme e 100mila specie di insetti, più o meno come in tutto il Nordamerica. Ed è la casa di due gruppi indigeni in isolamento volontario: i Tagaeri e i Taromenane, entrambi appartenenti alla cultura waorani e minacciati dalle pressioni delle imprese petrolifere che operano ai confini del loro territorio.

MA IN GIOCO c’è anche più di tutto questo: la campagna per il Sì al referendum assume infatti un enorme valore simbolico a livello internazionale, rilanciando una delle proposte più originali nella lotta all’emergenza climatica.
La cosiddetta Iniziativa Yasuní Itt era stata lanciata dal governo di Rafael Correa nel 2007 – prima che la sua Revolución Ciudadana optasse per il modello estrattivista calpestando l’anima verde della Costituzione di Montecristi – sulla base delle richieste avanzate dalle comunità indigene e da alcune ong ambientaliste.

Una proposta che comportava la rinuncia allo sfruttamento di alcuni giacimenti petroliferi all’interno del parco in cambio della costituzione da parte della comunità internazionale di un fondo di compensazione di 3.600 milioni di dollari (pari alla metà dei guadagni che il paese avrebbe ottenuto dall’estrazione di petrolio nell’area), in una sorta di assunzione di responsabilità dei paesi ricchi rispetto alla riduzione delle emissioni globali di gas climalteranti.

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Malgrado l’iniziativa riguardasse appena la regione petrolifera Itt (quella di Ishpingo, Tambococha e Tiputini), pari al 10% della superficie totale del parco, il progetto scongiurava comunque, tra altre cose, l’immissione nell’atmosfera di 400 milioni di tonnellate di CO2, rappresentando un nuovo e rivoluzionario modo di affrontare la questione del riscaldamento globale.

TROPPO BELLO, forse, per essere vero. Infatti, nel 2013, il presidente Correa aveva detto addio al progetto, attribuendo la responsabilità del fallimento alla comunità internazionale, colpevole di aver investito nell’iniziativa meno del 4% dei fondi previsti. Anche se, nel momento in cui denunciava l’indifferenza suicida dei paesi ricchi, il suo governo non solo dava avvio allo sfruttamento dei giacimenti del Blocco 43, ma puntava con forza sull’attività mineraria criminalizzando i popoli originari in lotta contro le attività estrattive nei propri territori.

Si consumava così la rottura tra il governo Correa e i movimenti indigeni ed ecologisti, i quali avrebbero voluto che il petrolio restasse sotto terra con o senza il contributo finanziario internazionale. Da allora, tuttavia, non si sarebbero mai arresi: già nel 2014, la campagna «Yasunídos», lanciata dall’ong Acción Ecológica, aveva raccolto le firme sufficienti per la convocazione di un referendum, senza però ottenere il via libera delle autorità elettorali. È stato solo a maggio che la Corte costituzionale, a sorpresa, si è pronunciata a favore della consultazione referendaria, a cui si è aggiunta – ma solo per i cittadini della capitale – anche quella sul divieto dell’attività mineraria nel Choco Andino, un paradiso di 287.000 ettari di foreste vicino alla capitale.

ED È COSÌ che la questione del parco Yasuní ha nuovamente occupato il centro della scena politica, riaccendendo il dibattito sul modello di civiltà che il paese è chiamato a promuovere e svelando nuovamente le contraddizioni esistenti all’interno dell’esperienza della Revolución ciudadana. Non a caso, la candidata correista Luisa González, in testa in tutti i sondaggi, non ha lasciato dubbi su quale sia la sua posizione: «La nostra militanza è libera di votare come meglio crede, ma a chi propone di lasciare il petrolio sotto terra, io dico che l’Ecuador ha bisogno di medicine, ospedali e posti di lavoro».

UN ARGOMENTO contestato, in una lettera aperta, da economisti di tutto il mondo, tra cui Alberto Acosta, il vero artefice dell’iniziativa del 2007: per più di cinquant’anni, dicono, il petrolio ha modellato l’economia del paese. E «cinquant’anni sono sufficienti per constatare come l’Ecuador non si sia sviluppato esportando petrolio». Per di più, aggiungono, «la regione petrolifera dell’Amazzonia ecuadoriana, devastata dall’attività petrolifera, è la più povera di tutto il paese. Continuare così non ha senso».

* Fonte/autore: Claudia Fanti, il manifesto



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