Morire di carcere. L’inaccettabile doppia sofferenza delle detenute

Morire di carcere. L’inaccettabile doppia sofferenza delle detenute

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Non è la durata della pena a fare paura, è il vuoto, è l’incertezza del domani, è un carcere che inchioda all’impotenza mentre spreca retorica sul reinserimento

 

Il carcere delle Vallette, a Torino ha un tragico primato di morte delle donne: nel 1989 nove detenute e due agenti morirono nell’incendio del braccio femminile. Una morte evitabile, causata dall’incuria e dai ritardi nei soccorsi. Oggi, di nuovo, le donne pagano il prezzo di una detenzione che porta alla disperazione e all’impotenza. In quel carcere tre donne sono morte dalla fine di giugno: Graziana e Azzurra si sono suicidate, una sarebbe uscita dopo pochi giorni, l’altra tra meno di un anno. Non è la durata della pena a fare paura, è il vuoto, è l’incertezza del domani, è un carcere che inchioda all’impotenza mentre spreca retorica sul reinserimento.

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Susan è stata lasciata morire per uno sciopero della fame e della sete, nell’attesa di poter rivedere suo figlio, senza che nessuno si interrogasse – ben prima di psichiatrizzarla – sulla ragione del suo gesto e su come quella ragione si potesse rispettare, soccorrendola non attraverso l’alimentazione forzata ma riconoscendo la legittimità del suo bisogno. Trattandola da donna, persona, madre. Sarebbe stato davvero così difficile darle una qualche certezza sul rivedere suo figlio, sul mantenere un rapporto materno con lui?

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Non sappiamo se questo sarebbe bastato a salvarla, certo avrebbe almeno colmato quel vuoto oscuro di etica, diritti e di rispetto della vita che questa morte ci mostra, impietosamente e oscenamente.

Il carcere delle donne è segnato da dolore al pari di quello degli uomini, ma non nello stesso modo. Non è solo il peso del doppio stigma, per aver commesso un reato e per aver infranto i copioni di genere patriarcali, che le segna con un giudizio che la lotta delle donne non ha ancora sconfitto; e non è solo nemmeno il di più di abbandono che opprime il carcere femminile, costruito dentro un universo maschile, carcere dei piccoli numeri, su cui non si investe. È che le donne portano su di sé, per storia, ruolo sociale e cultura, la bellezza, la responsabilità, il peso della cura delle relazioni affettive, famigliari, amicali, e la deprivazione di questa dimensione in particolare le mortifica, le umilia, le fa soffrire, attacca e invalida una parte importante del loro essere donne adulte.

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Questa sofferenza è anche più grande quando la relazione negata è quella materna. Ma va detto, va urlato, che è una sofferenza non necessaria, che un carcere dei diritti, un carcere costituzionale, avrebbe il compito di limitare, compiendo ogni sforzo per salvaguardare il legame materno, rendendo accessibili pene alternative al carcere per le donne madri, sostenendole nella continuità genitoriale quando sono povere di risorse e di rete sociale.

Non è così, anche se le leggi ci sono. Anzi, il carcere del populismo penale si prepara non solo a stravolgere l’articolo 27 della costituzione, ma per le donne ha in serbo anche la perdita della potestà genitoriale come pena aggiuntiva, sempre e comunque in caso di pena superiore a cinque anni. È la recente proposta di Fratelli d’Italia, contro cui nei mesi scorsi la campagna Madri fuori dal carcere e dallo stigma ha lanciato opposizione e resistenza. È il fantasma patriarcale della «cattiva madre» che torna a colpire le donne detenute e a imporre alle madri e ai loro bambini e bambine un’inaccettabile sofferenza

* Fonte/autore: Susanna Ronconi, il manifesto



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