by Emiliano Brancaccio * | 11 Agosto 2024 8:42
Finché c’è guerra c’è speranza sui mercati, potremmo dire. Un tempo l’avremmo considerato un altro degli scherzi grotteschi del capitalismo, un motivo in più per costruire l’alternativa di sistema
Sembrano lontani i in cui i crolli di borsa venivano interpretati come segni propiziatori per il sovvertimento dell’ordine costituito. Oggi le masse tendono piuttosto a condividere le ansie dei grandi investitori.
Quando gli affari di borsa di quei pochi vanno male, si teme che la vita di tutti andrà peggio. Così, se Tokyo sprofonda, Wall Street la rincorre e a ruota seguono Francoforte, Parigi e il piccolo catino di Milano, alla notizia accade che pure nelle umili case, dove non si è mai visto il becco di un titolo, si avverta comunque un cenno d’angoscia per l’incerto futuro dei corsi azionari.
Ci sarebbe da fare autocritica, da rimarcare qualche distinguo tra i destini dei signori del denaro e quelli delle classi lavoratrici. Ci sarebbe da discutere della razionalità di un sistema che mette la speculazione a dirigere i traffici del mondo. Ma non sembra ancora il tempo. Totalità del capitale è anche totalità dei sentimenti equivoci che suscita nei subalterni.
Vediamo allora se sia il caso di temere per il futuro, viste le attuali turbolenze dei mercati. Il problema sta nella scelta del criterio di valutazione. Operazione non banale, considerata la pletora di ciarlatani che popolano le analisi di borsa.
Un criterio dotato di crisma scientifico tuttavia esiste. È il cosiddetto price earnings ratio – rapporto tra prezzi e dividendi – suggerito dal Nobel per l’economia Robert Shiller. In poche parole, si tratta di prendere il livello dei prezzi che le azioni hanno raggiunto sui mercati e di rapportarlo alla media dei dividendi staccati dagli azionisti negli ultimi dieci anni. Più alto è questo rapporto, più è probabile che le azioni siano sopravvalutate rispetto ai profitti annui che effettivamente riescono a garantire, e quindi più alto è il rischio di crolli del mercato.
Ebbene, se guardiamo gli attuali rapporti tra prezzi e dividendi la sopravvalutazione delle azioni appare marcata. Nella borsa di New York i valori azionari sono oggi 33 volte più grandi dei dividendi che i possessori hanno ottenuto nell’ultimo decennio.
L’esagerazione dei listini è persino superiore rispetto alla vigilia del grande crollo del 1929, quando le azioni erano quotate a prezzi “appena” 29 volte maggiori rispetto ai dividendi. Da Tokyo a Londra, da Francoforte a Hong Kong, l’attuale rapporto tra prezzi e dividendi non è così esasperato ma anche lì i segnali di sopravvalutazione sono abbastanza chiari. Una «bolla speculativa» globale, come si dice in gergo, ha di nuovo gonfiato i prezzi e c’è il rischio che presto o tardi esploda.
Certo, l’indice di Shiller ha i suoi limiti. Per esempio, non tiene conto del volume dei debiti delle aziende quotate. Ma questo significa che si tratta di una misura ottimistica, nel senso che può sottovalutare il rischio di una crisi. A Wall Street, nell’agosto 2008, il rapporto si situava appena sopra 20 e ben pochi osservatori ritenevano che potesse annunciare la tremenda recessione dei mesi successivi. Questo è un motivo in più per guardare l’elevato rapporto attuale con preoccupazione. Soprattutto se si considera che per i debitori la situazione volge al brutto. Le banche centrali sono tuttora pungolate dai creditori, che vorrebbero ulteriori rialzi dei tassi per compensare le perdite causate dall’inflazione.
A ben vedere, tuttavia, c’è una ragione per cui la bolla speculativa dei corsi azionari potrebbe ancora resistere senza scoppiare. Sono i venti di guerra che tuttora imperversano nel mondo. L’impegno bellico richiede stabilità e consenso interno. La crisi finanziaria va allora per quanto possibile rinviata, almeno fino a quando perdura la crisi militare.
Finché c’è guerra c’è speranza sui mercati, potremmo dire. Un tempo l’avremmo considerato un altro degli scherzi grotteschi del capitalismo, un motivo in più per costruire l’alternativa di sistema. Oggi invece restiamo come sotto ipnosi dinanzi alle notizie. Un giorno il tonfo di borsa, il giorno dopo un massacro di civili in qualche angolo del mondo, il giorno dopo ancora la ripresa dei valori azionari.
Un rincorrersi di prezzi e di morti, finché persiste il vuoto di intelligenza collettiva necessaria a interrompere la giostra di pixel e di sangue.
* Fonte/autore: Emiliano Brancaccio, il manifesto[1]
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