COP29 a Baku, dove il petrolio è «un dono di Dio»

COP29 a Baku, dove il petrolio è «un dono di Dio»

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L’uscita del presidente azero della Cop29, Ilham Aliyev , restituisce il clima sempre meno favorevole alla transizione a livello globale

 

BAKU. La Cop29 di Baku, il nuovo round negoziale delle Nazioni Unite sul contrasto al riscaldamento globale, è arrivato al suo secondo giorno. Il summit della «finanza» e delle «defezioni» – questi i termini più usati per descriverlo – entra nel vivo con la passerella dei leader. Quasi cento capi di governo sono atterrati nella capitale azera, solo all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite se ne contano di più, ma tra loro mancano quasi tutti i pezzi da novanta. Non ci saranno Xi Jinping, Joe Biden, Narendra Modi, Ursula von Der Leyen. In questo contesto sottotono, il palco se lo son presi da un lato Regno Unito e Brasile, dall’altra l’Azerbaigian stesso.

LA GIORNATA È PARTITA coi padroni di casa. Al giorno uno la presidenza ha subito annunciato un accordo sui crediti di carbonio – meccanismi di mercato per ridurre le emissioni, immaginati ormai un ventennio fa e sui quali si fa sempre meno affidamento. Cosa pensa davvero il governo di Baku lo ha chiarito ieri l’autocrate Ilham Aliyev. «Il gas e il petrolio sono un dono di Dio» ha detto durante il suo discorso. L’onestà dei petrostati è forse il segno più evidentemente del clima sempre meno favorevole alla transizione a livello globale. A risollevare l’umore ci hanno provato Keir Starmer e Geraldo Alckmin, rispettivamente premier britannico e vice-presidente brasiliano – Lula è assente giustificato per ragioni di salute. Il primo ha presentato il piano per ridurre le proprie emissioni dell’81% entro il 2035 rispetto ai livelli più alti mai raggiunti dal suo paese. La conferma di come il governo laburista, per altri versi piuttosto centrista, intenda presentarsi come alfiere della lotta al riscaldamento globale.

ANCHE IL BRASILE ha mostrato al mondo nuovi target, ma un po’ meno ambiziosi: tra -39% e meno -50% allo stesso anno. Il paese sudamericano ospiterà il summit del prossimo anno, Cop30, ed è in quell’occasione che gli analisti sperano di vedere più ambizione in termini di emissioni. Pure la Turchia, a sorpresa, si è fatta notare, presentandosi col suo impegno per il raggiungimento delle emissioni zero nette al 2053.

MENZIONE SPECIALE per Pedro Sánchez: nessun nuovo impegno, ma con più di 200 morti nella recente alluvione di Valencia il discorso del presidente spagnolo ha assunto inevitabilmente il tono più emotivo di tutta la giornata. «I primi studi ci dicono che questo evento sarebbe stato meno probabile senza il cambiamento climatico» ha detto.

Certo è che vedendo l’alternarsi degli speech dei leader salta subito all’occhio la vera linea di frattura: i paesi poveri parlano quasi ossessivamente di finanza climatica, i ricchi (quelli presenti) no. Eppure proprio il tema dei fondi che dal Nord devono andare al Sud globale per finanziare la transizione dovrebbe essere il cuore di Cop29. Come spiegavamo su queste pagine nei giorni passati, a Baku si dovrà rinnovare la promessa dei 100 miliardi annui fatta nell’ormai lontanissimo 2009. Tra i paesi cosiddetti in via di sviluppo molti – ad esempio l’Unione Africana – vorrebbero decuplicare la cifra, arrivando a 1.000 miliardi all’anno. Il mondo industrializzato non vuole saperne, e punta il dito sulla Cina. Pechino non contribuisce infatti a questo genere di fondi perché, nel contesto della Convenzione Onu sui cambiamenti climatici stilata nel 1992, è ancora considerata «paese in via di sviluppo». Non è solo questione di quanto: il Pakistan, ad esempio, ha già fatto sapere che per loro il 70% del denaro dovrebbe arrivare a fondo perduto, e non come nuovo debito.

SULLO SFONDO il tema del dove recuperare i soldi. In un articolo di pochi giorni fa a tripla firma i presidenti di Francia, Kenya e Barbados – Emmanuel Macron, William Ruto e Mia Amor Mottley – propongono di usare un mix di strumenti esistenti, tra micro-imposte sulle transazioni finanziarie e carbon tax. Il segretario generale dell’Onu António Guterres ha parlato a Baku di tassare i viaggi aerei e navali. Da anni in sede G20 si discute di una patrimoniale globale sugli ultraricchi – secondo una delle tante stime, con il 2% su 3.000 miliardari si farebbero 250 miliardi l’anno. Ma la volontà politica, alla Cop come fuori, latita.

DA ALCUNE MIGLIAIA di chilometri di distanza, Donald Trump intanto sorride. Qualunque cosa si deciderà a Baku, lui non la rispetterà. Lunedì ha parlato John Podesta, l’inviato speciale per il clima statunitense appena nominato e già pronto al licenziamento non appena i repubblicani prenderanno ufficialmente possesso della Casa Bianca. «Siamo consapevoli di avervi deluso» ha detto. Il tono, più che da diplomatico di una grande potenza, è quello del curatore fallimentare. Già coi democratici gli Stati Uniti hanno spesso fatto ostruzionismo in sede Cop, e sotto Biden si è raggiunto il picco nell’estrazione di idrocarburi negli States. Ora la diplomazia climatica dovrà capire come andare avanti senza Washington, almeno per un po’.

* Fonte/autore: Lorenzo Tecleme, il manifesto



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