Elezioni presidenziali. Gli Stati Uniti e il mondo hanno già perso
Alla ferocia annunciata di Trump, i democratici non hanno trovato di meglio che riprendersi la bandiera e le uniformi e ignorare il movimento per la pace
LOS ANGELES. Femmina. Il paradosso delle elezioni Usa 2024 è quanto centrale sia stata la questione gender e al contempo quanto defilato sia stato il sesso della seconda candidata donna della storia.
Il gender divide ha sotteso tutta la stagione da quando il passo indietro di Joe Biden ha preso in contropiede Donald Trump spingendolo ad enfatizzare ancor più gli aspetti machisti di una campagna saldamente ancorata nella manosphere, dai miliziani maschi della alt right ai tech bros della Silicon Valley.
La campagna è finita con Julia Roberts che suggeriva alle donne di votare in coscienza, senza dirlo ai mariti. «Il seggio – recita l’attrice nello spot – è l’ultimo posto dove le donne hanno ancora libertà di scelta» (ogni riferimento all’espressione usata nel contesto dell’aborto è tutt’altro che casuale).
Intanto, nei comizi di chiusura, Trump citava l’urlo di Peter Finch nel Quinto Potere di Sidney Lumet: «We’re not gonna take it anymore!». «Non lo accetteremo più!», citazione scelta da Trump per estrarre le ultime gocce di gutturale e amorfa ribellione da una base usata per spianare la strada del potere ad una plutocrazia senza scrupoli.
L’immaginario filmico misura il terreno emozionale dello psicodramma che nella nostra notte gli americani hanno tentato di elaborare nelle urne.
IL TERZO ASSALTO trumpista alla democrazia riassume elementi delle crisi di molte democrazie occidentali spaccate fra establishment liberal-liberisti e sfide nazional populiste da destra.
Nell’eccentrico sistema elettorale Usa, disuguaglianze e deficit di riconoscimento sono ingrandite dalla tara che ingigantisce l’influenza di piccoli stati deindustrializzati. E in questo senso il fenomeno trumpista prende impeto sfruttando distorsioni quantificabili.
Ma la patologia demagogica in cui è stata risucchiata la politica americana è indice di uno squilibrio più profondo.
Altrimenti le istanze sacrosante contro le aberrazioni tardo capitaliste non troverebbero sbocco nella distopica coalizione di nativismo rancoroso con una plutocrazia utopista e psicotica come quella rappresentata da Elon Musk e Robert Kennedy Jr., e il progetto di «decostruzione dello stato amministrativo» così funzionale ai nuovi monopoli.
In questo senso, nell’implosione di una realtà condivisa in grado di sostenere un dialogo politico, l’America ha già perso. Quelle dello schieramento Kamala Harris, (simile a quelli di unità nazionale, visti in Francia e altrove) sono battaglie di retroguardia, in gran parte combattute per salvare il salvabile di un welfare state sempre più precario.
Ma la ritirata è già avvenuta. Su protezionismo e immigrazione, ad esempio, dove le istanze della destra sono state in gran parte cooptate nell’illusione di arginare l’emorragia di elettori. E la mentalità del riarmo che coincide con la proporzionale erosione di diritti e diplomazie e l’acquiescenza agli orrori dilaganti della guerra.
Nel caso Usa la responsabilità è diretta e proporzionale all’egemonismo proiettato nelle 750 basi militari nel mondo.
DI CONTRO vi era l’abiezione morale di un aspirante autocrate che alcuni vorrebbero interpretare in chiave positiva di un immaginato «pacifismo trumpista», come se l’opportunistico isolazionismo potesse distrarre gli Stati uniti dall’egemonismo, invece di collocarli in perfetta sintonia con quelli di Putin, Netanyahu, Bin Salman, Milei e la marea montante degli illiberismi nativisti e fanatici.
In questa disfida dei mali minori è proprio l’egemonismo a essere in gran parte ignorato da un elettorato beato nella incoscienza del proprio peso sul pianeta.
Come ha segnalato la scorsa settimana su Zeteo, l’autore di origini vietnamite, Viet Thahn Nguyen, anche fra molti progressisti, la postura globale rimane inquadrata nei semplicismi di una mitologia imperniata sulla predestinazione americana ad esportare libertà.
Quello di Thahn è stato fra i rari interventi capaci di contemplare l’insofferenza di chi nel mondo stenta ad empatizzare con lo psicodramma di molti liberal americani. Per molti progressisti, scrive Tahn, l’orrore trumpista deriverebbe dal dover subire su suolo nazionale l’ira funesta negli anni inflitta, e disinvoltamente rimossa, a così tanti popoli.
Eppure alla ferocia annunciata di Trump, i democratici non hanno trovato di meglio che riprendersi la bandiera e le uniformi per «non concedere al Grand old party l’esclusiva sul patriottismo». E di ignorare il movimento per la pace.
Per questo sappiamo, tutti noi che i genocidi oggi li seguiamo in diretta social con sempre meno risposte, che il prossimo presidente americano, uomo o donna che sia, sarà difficilmente in grado di proporne.
* Fonte/autore: Luca Celada, il manifesto
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