Clima. Gli apprendisti stregoni della geoingegneria solare
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Gli effetti della geoingegneria solare sono difficilmente prevedibili. L’atmosfera è un sistema complesso e ogni azione locale ha ricadute globali, ben al di là dei confini e persino controproducenti
«È il momento della geoingegneria solare?» si chiede il settimanale inglese The New Scientist in un articolo di qualche giorno fa. In effetti, non ci sono mai stati così tanti progetti di ricerca mirati a combattere il cambiamento climatico oscurando il Sole. I metodi più studiati consistono nel disperdere polveri nella stratosfera o nel creare nubi a bassa quota sugli oceani per riflettere il calore solare e impedire che sia trattenuto dall’effetto serra. Aziende come la californiana Make Sunsets stanno già inviando palloni nella stratosfera per rilasciare aerosol riflettenti. Secondo i fondatori, basta un grammo di diossido di zolfo in sospensione per compensare l’effetto di una tonnellata di anidride carbonica in un anno.
Tuttavia, come racconta il New Scientist, la crescente diffusione di queste tecnologie genera altrettante controversie. Le proteste dei movimenti ambientalisti hanno convinto l’università di Harvard ad annullare il suo programma di rilascio di polveri avviato già da un decennio. Il governo messicano vuole bandire per legge la geoingegneria solare, dopo aver scoperto che proprio la Make Sunsets ha lanciato due palloni dal suo territorio. Anche diversi Stati europei vorrebbero vietare questa pratica. Gli effetti della geoingegneria solare sono difficilmente prevedibili. L’atmosfera è un sistema complesso e ogni azione locale ha ricadute globali, ben al di là dei confini e persino controproducenti. Perciò, diversi governi, Ong e scienziati chiedono che queste attività vengano fermate o rigidamente regolamentate. Il numero di ieri della rivista Science riporta un’analisi degli schieramenti geopolitici nel merito: Usa e Arabia Saudita sono le nazioni più favorevoli alla geo-ingegneria e non è un caso che siano anche le economie che più dipendono dai combustibili fossili. Senza la collaborazione statunitense difficilmente si arriverà a un bando globale. Perciò, di geoingegneria solare sentiremo parlare sempre più spesso. Così come di bio-carburanti, di fusione nucleare, di sistemi di cattura e rimozione dell’anidride carbonica, tutte tecnologie irrealistiche o insufficienti a compensare il riscaldamento globale.
Da qualche tempo, chi si oppone al phase out dei combustibili fossili ha abbandonato il negazionismo climatico e abbracciato la strada della tecnologia per rimandare ogni sforzo per una reale transizione ecologica e continuare il business as usual. È una strategia assai più efficace: se l’economista Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera promuove un inesistente «motore a combustione interna che emette poche decine di grammi di CO2 per chilometro» grazie al biofuel – come ha fatto lo scorso 28 dicembre – e l’ingegnere ambientale del Politecnico di Milano Stefano Caserini ne smonta l’argomento dal suo istruttivo blog www.climalteranti.it, chi troverà più eco nella politica e nell’imprenditoria?
Il problema è che le sirene della geoingegneria, dei biocarburanti e delle altre diavolerie utili al greenwashing ottengono facile ascolto anche nei settori tradizionali della sinistra. Mentre la lotta al cambiamento climatico dall’alto finora si è manifestata con l’aumento dei prezzi e la repressione, la tecnologia promette la sopravvivenza del capitalismo ma anche delle forme tradizionali della democrazia: perché non scegliere questa strada? La ragione più banale, come visto, è che non funziona. Ma nemmeno una sinistra che rinuncia a se stessa può salvare il pianeta. Il sentiero è stretto ma inevitabile: il modello di sviluppo diventerà più pulito solo se diventerà più giusto.
* Fonte/autore: Andrea Capocci, il manifesto
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