Colombia. Il presidente Petro prova a opporsi a Trump sulle deportazioni

Dazi fino al 50%, divieto di ingresso e revoca dei visti per tutti i dirigenti governativi colombiani, ispezioni doganali: le minacce del presidente Usa hanno funzionato
La retromarcia è arrivata in meno di 24 ore: contro l’implacabile reazione di Trump non è restato altro da fare al presidente Gustavo Petro che rimangiarsi la decisione di vietare l’ingresso ai voli militari statunitensi con a bordo i colombiani espulsi. A dichiarare la resa è stato il ministro degli Esteri Luis Gilberto Murillo: «Abbiamo superato l’impasse con il governo degli Stati Uniti», ha dichiarato, assicurando che la Colombia «continuerà a ricevere» coloro che «tornano come deportati, garantendo loro condizioni dignitose» e annunciando un suo imminente viaggio a Washington «per sostenere riunioni di alto livello che diano seguito agli accordi risultanti dal lavoro congiunto».
Dal lato statunitense, la parola d’ordine è stata infierire: «Il governo colombiano ha accettato tutti i termini del presidente Trump, inclusa l’accettazione senza restrizioni di tutti gli stranieri illegali riconsegnati dagli Stati Uniti, anche in aerei militari Usa, senza limitazioni né ritardi». Il tycoon non ha solo vinto, insomma, ma ha anche voluto umiliare l’avversario, non sia mai che qualcun altro volesse seguirne l’esempio. E infatti: «Gli eventi di oggi hanno mostrato chiaramente al mondo che gli Stati Uniti sono di nuovo rispettati», ha recitato il comunicato.
Non che Petro avesse preteso chissà cosa: «Gli Usa non possono trattare come delinquenti i migranti colombiani», aveva scritto sul suo account ufficiale di X, annunciando poi di aver respinto due aerei militari statunitensi in arrivo con un totale di 160 colombiani a bordo e chiedendo agli Usa di stabilire un protocollo per un «trattamento dignitoso» come condizione per accettarne il rimpatrio.
Precisando che avrebbe consentito l’ingresso a voli civili statunitensi con colombiani deportati a patto che non fossero trattati «come criminali» e ammanettati mani e piedi, Petro aveva anche messo a disposizione il suo volo presidenziale per il rimpatrio dei suoi connazionali, non senza polemizzare sulla presenza in Colombia di «15.666 statunitensi irregolari», i quali, aveva però aggiunto, non sarebbero stati espulsi perché «noi siamo l’opposto dei nazisti».
All’atto di insubordinazione di Petro, aveva risposto prima il Dipartimento di Stato Usa, chiudendo la sezione visti dell’ambasciata a Bogotà, poi Trump in persona, con un elenco di misure di ritorsione contro «il presidente socialista»: dazi fino al 50%, divieto di ingresso e revoca dei visti per tutti i dirigenti governativi colombiani, i loro alleati e sostenitori, ispezioni doganali e di protezione delle frontiere rafforzate. «Queste misure sono solo l’inizio. Non permetteremo al governo colombiano di violare i suoi obblighi legali», aveva minacciato Trump.
Lì per lì Petro non si era piegato: «non mi spaventi», gli aveva risposto, annunciando analoghi dazi alle importazioni statunitensi. Ma era una battaglia impari: gli Usa, il principale partner commerciale della Colombia, assorbono il 27% delle sue esportazioni, contro appena l’1% di quelle degli Stati Uniti verso Bogotà. Per l’economia del paese latinoamericano i danni sarebbero stati incalcolabili,
Così, dopo il colpo inferto al suo progetto di «pace totale» dall’offensiva dell’Eln nel Catatumbo, è un altro rospo pesante quello che ha dovuto digerire Petro, aspramente criticato in patria per essersi impelagato in una prova di forza via social anziché tentare di percorrere i canali diplomatici: la via, senz’altro più prudente, seguita dal Brasile, pure estremamente critico verso il trattamento riservato ai suoi migranti, e dal Messico.
Tuttavia, almeno un merito Petro l’ha avuto: quello di agitare ulteriormente le acque nella regione. Non a caso, su sua richiesta, la presidente dell’Honduras Xiomara Castro ha convocato a Tegucigalpa, il 30 gennaio, una riunione straordinaria della Celac, la Comunità degli stati latinoamericani e caraibici, per stabilire una posizione comune riguardo alle politiche migratorie di Trump.
* Fonte/autore: Claudia Fanti, il manifesto
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