I crimini in Libia. Torture e fosse comuni, oltre 13 anni di indagini della Corte internazionale

Il lavoro del procuratore Khan per «ottenere giustizia». La richiesta di arresto è stata trasmessa a 6 paesi europei tra cui l’Italia
La Libia non è uno Stato parte dello Statuto di Roma. Tuttavia, il 26 febbraio 2011, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, con la risoluzione 1970, ha deciso all’unanimità di deferire alla Corte penale internazionale (Cpi) la situazione in Libia. Una decisione che ha permesso alla Cpi di esercitare la sua giurisdizione sui crimini, ai sensi dello Statuto di Roma, commessi nel territorio della Libia o da suoi cittadini a partire dal 2011.
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L’INCHIESTA, aperta nel marzo 2011, ha portato a tre procedimenti, inizialmente avviati nei confronti di 11 sospettati, accusati in particolare dei seguenti reati: «Crimini contro l’umanità» compiuti nei centri di detenzione libici attraverso «l’omicidio, la persecuzione, la prigionia, la tortura e lo stupro» e «crimini di guerra» compiuti, durante il conflitto interno tra i due schieramenti, attraverso «gli omicidi, le torture e le esecuzioni sommarie». Il caso più eclatante è Tarhuna – città simbolo delle atrocità della guerra civile – con «il ritrovamento di 29 fosse comuni e l’uccisione sistematica di almeno 330 civili inermi»,la maggior parte dei quali ammanettati, bendati e torturati. Con la concreta possibilità, secondo le conclusioni della Cpi e della missione delle Nazioni unite in Libia (Unmil), che potrebbero esserci «fino a 100 altri siti di questo tipo in tutto il paese».
A ottobre 2024, il procuratore capo della Corte penale internazionale, Karim Khan, ha emesso 6 mandati di arresto «per i presunti crimini commessi a Tarhuna» nei confronti di tutti i leader affiliati alla milizia Al Kaniyat che, insieme alla Forza Rada, ha commesso «brutali uccisioni» in quella città.
LA CPI ha precisato di avere attualmente 11 mandati di arresto – 5 secretati per permettere ulteriori approfondimenti – e ha successivamente dichiarato di voler emettere «nuovi mandati di cattura nel 2025», relativi ai crimini commessi nei centri di detenzione. Tra i mandati secretati c’era il nominativo di Elmasry, accusato di «crimini contro l’umanità e crimini di guerra» in quanto «referente istituzionale» delle violenze perpetrate «nei confronti di civili e migranti all’interno dei centri di detenzione».
IL 18 GENNAIO 2025, la Camera preliminare I della Corte penale internazionale ha di fatto reso pubblico il mandato di arresto per Elmasry, capo del sistema penitenziario di Tripoli, dove migliaia di persone sono state detenute, torturate e uccise nella prigione di Mitiga dal 2015.
Secondo la Cpi, la richiesta di arresto è stata trasmessa attraverso i canali designati a 6 paesi europei (tra cui l’Italia) in cui Elmasry è transitato, preceduti da un coordinamento con ciascuno stato «per garantire la corretta ricezione della richiesta dell’Aja». La Corte ha trasmesso informazioni in tempo reale sulla posizione dell’indagato nello spazio europeo Schengen e come previsto dallo Statuto, ha richiesto all’Interpol di emettere una “Red Notice” per il suo arresto, avvenuto a Torino domenica 19 gennaio.
Allo stesso tempo, la Cpi ha preso contatto con le autorità italiane per garantire «l’effettiva esecuzione di tutte le misure previste dallo Statuto di Roma» ed ha precisato di aver fatto presente che, in caso di problematiche o possibili ostacoli relativi al suo mandato di arresto, il governo italiano «avrebbe dovuto consultare la Corte penale al fine di risolvere la questione». A novembre, durante il suo ultimo audit davanti al Consiglio di Sicurezza, il procuratore Khan ha evidenziato la propria determinazione «nell’ottenere giustizia».
«La sensazione è che le cose stiano cambiando e che sia giunto il momento dell’azione e della giustizia con il rispetto del diritto internazionale, una sensazione che per tutte queste vittime è fonte di speranza e di conforto» aveva concluso Khan. Cosa che certamente non avverrà per Elmasry.
* Fonte/autore: Stefano Mauro, il manifesto
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