Roma. Verità e giustizia per Sakine, Fidan e Leyla

Roma. Verità e giustizia per Sakine, Fidan e Leyla

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Presidio nella capitale in memoria delle tre politiche curde uccise a Parigi dai servizi segreti turchi, mentre in Siria la Turchia minaccia il progetto democratico nato in Kurdistan

 

ROMA. Hanno risposto in molte e molti al grido di giustizia lanciato ieri a piazza Campo de’ Fiori, nel centro di Roma e in prossimità dall’ambasciata francese. Per Sakine Cansız, che ha vissuto tutta la sua vita come una lotta, come titola uno dei suoi libri, e per Fidan Doğan e Leyla Şaylemez, militanti curde uccise il 9 gennaio 2013 nel centro culturale curdo di Parigi. Il loro testimone è stato raccolto dalle donne della rete Jin, del comitato di Jineoloji Italia e di Non una di meno, che a pochi giorni dall’inizio del nuovo anno si ritrovano, come da consuetudine, per ricordare quello che definiscono «un triplice femminicidio politico». Il presunto assassino delle tre donne curde, il cittadino turco Omer Güney, è stato catturato in tempi brevi e morto poco dopo a causa di un tumore al cervello.

L’inchiesta, come spesso accade alla morte degli imputati, è caduta nel vuoto. Ma «la vera matrice del femminicidio è chiara e si trova tra le fila dei servizi segreti turchi», ci dice Viola Paolinelli di Jineoloji Italia, da diversi anni solidale alla lotta di liberazione delle donne in tutto il Medio Oriente. «Insieme ad Abdullah Öcalan, Sakine Cansiz ha fondato il partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk, ndr)», ricorda. Tra le prove contro Güney: una conversazione con gli agenti dei servizi segreti turchi (Mit) e il ritrovamento di numerose foto di attivisti curdi nel suo dispositivo.  La rivoluzione ecologista, femminista e anticapitalista delle donne del Rojava per cui Sakine, Fidan e Leyla sono morte, è tornata sotto minaccia: «Le posizioni sullo scacchiere siriano sono tante dopo la caduta di Assad, e la Turchia sta approfittando dell’instabilità per provare a spostare il suo confine di 40 chilometri», continua Paolinelli. Un’ambizione che già nel 2018 si era palesata con l’occupazione e il bombardamento del distretto di Afrin.

Per le donne curde in Europa «la terza guerra mondiale è una guerra contro la verità», come si legge nel loro comunicato, mentre per i lavoratori e le lavoratrici del Cobas «Il Medio Oriente è una tomba e una carneficina dei diritti fondamentali, a partire da quelli delle donne». Alzare la testa e difendere l’esperienza del Rojava e del nord-est della Siria «contro il fascismo e jihadismo imperante» sono il modo per esercitare la memoria delle tre curde uccise dodici anni fa. Una priorità anche per il centro socio-culturale Ararat: «I ragazzi e le ragazze curde si sono sacrificati per quel Kurdistan che sembra piccolo ma in realtà è grande, perché contiene molte identità che rischiano di essere cancellate dalla storia dai paesi imperialisti come la Turchia». Per questo, insieme all’Ufficio d’informazione del Kurdistan in Italia e alla rete Women defend Rojava, si è inaugurato ieri un mese scandito da azioni e iniziative che terrà al centro la «questione siriana». Fino al 15 febbraio, data in cui una manifestazione nazionale riempirà le strade di Roma e Bologna.

«Jin, jiyan, azadî», quello slogan in cui «donna» e «vita» hanno la stessa radice etimologica viene scandito fieramente da tutta la piazza, che si raccoglie in una versione rivisitata del rabbioso «Canción Sin Miedo», il canto della messicana Vivir Quintana diventato l’inno mondiale contro i femminicidi. «Dilaniano i corpi, li fanno sparire: non scordare i nomi», e poi «siamo tutte Sakine, Fidane, Leyla». Si canta in cerchio, tenendosi per mano, finché il suono registrato di una sirena non disperde tutte. Stese per terra, le attiviste si alzano una alla volta, solo se il tocco di un’altra arriva a raccoglierle. Il canto ricomincia quando sono tutte in piedi.

* Fonte/autore: Enrica Muraglie, il manifesto



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