Anche gli esperti dell’Onu accusano il boia di Tripoli: «Botte e torture»

Anche gli esperti dell’Onu accusano il boia di Tripoli: «Botte e torture»

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Relazione al presidente del Consiglio di sicurezza. L’analisi descrive un paese in mano ai gruppi armati. «Influenza mai vista sulle istituzioni»

C’è tutto un capitolo su Osama Najeem, conosciuto in Italia con il secondo cognome: Elmasry, nell’ultimo rapporto che il panel di esperti Onu sulla Libia ha consegnato al presidente del Consiglio di sicurezza (la data è il 13 dicembre scorso, ma è stato reso pubblico lunedì). «Cinque ex detenuti e tre testimoni oculari [lo] hanno identificato come direttamente responsabile di aver ordinato e commesso atti di tortura e altre forme di maltrattamento come parte della politica di gestione della struttura di detenzione di Mitiga», si legge nell’allegato 20. È quello sulle violazioni dei diritti umani perpetrate nelle strutture detentive sotto il controllo del Deterrence Apparatus for Combating Organized Crime and Terrorism (Dacot), una sorta di corpo anti-terrorismo di Tripoli.

In pratica la polizia giudiziaria, di cui Elmasry è a capo, è rappresentata come un ingranaggio del sistema di coercizione creato dal Dacot in primo luogo per colpire gli oppositori e imporre il proprio potere, ma anche per sfruttare i migranti e realizzare affari sulla loro pelle. Persino a scapito delle fragili istituzioni governative. Una macchina alimentata dalle violenze, che ha nei centri di detenzione i suoi snodi fondamentali. «Arresti arbitrari, sparizioni forzate, torture, trattamenti crudeli, inumani e/o degradanti» sono commessi nella struttura di Mitiga, che si trova a Tripoli, è sotto il controllo del Dacot e viene diretta da Elmasry. È stata «ristrutturata per realizzare i maltrattamenti».

Lì dentro le persone sono sottoposte a violazioni di ogni tipo, spesso in combinazione tra loro: «Pestaggi regolari, isolamento continuato, posizioni prolungate di stress». Due delle vittime con cui hanno potuto parlare gli esperti delle Nazioni unite hanno raccontato di essere state «incatenate a un montacarichi per i polsi o il torso mentre venivano picchiate e prese a calci per ore, minacciati della morte o tortura dei familiari, esposti alle brutalità commesse regolarmente contro i compagni di prigionia».

Delle otto vittime intervistate, tre sono state «sottoposte a torture strazianti e duri maltrattamenti per ottenere informazioni sui parenti più stretti». A tutti sono stati negati bisogni primari come l’accesso a cibo, igiene e riposo. I racconti coincidono con quelli diffusi da questo lato del Mediterraneo da altre vittime di Elmasry e dei suoi sgherri, tre persone riuscite ad arrivare in Europa. Sono David Yambio, Mahamat Daou e Lam Magok, rappresentanti di Refugees in Lybia intervenuti la scorsa settimana nella sala stampa della Camera. L’ultimo ha anche denunciato la premier Giorgia Meloni e i ministri di Interno e Giustizia Matteo Piantedosi e Carlo Nordio.

Per il resto il rapporto Onu descrive una situazione in cui i gruppi armati libici hanno raggiunto un livello di influenza mai visto prima sulle istituzioni del paese. Accumulano profitti dalla catena di approvvigionamento del petrolio, controllano entità rilevanti nel pubblico e nel privato. Intanto le reti di traffico di esseri umani operano con crescente potere e impunità.

Un bel risultato per i sacerdoti italiani della «ragion di Stato» che, dal memorandum anti-migranti Gentiloni-Minniti firmato nel 2017 alla recente impunità garantita a Elmasry dal governo Meloni, non hanno mai smesso di fornire sostegno economico e copertura politica a chi comanda davvero dall’altro lato del mare. Con questi effetti.

* Fonte/autore: Giansandro Merl, il manifesto



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