Guerra dei dazi. Il racket come razionalità economica

Ci sono Stati che saranno avvantaggiati dai dazi e altri che saranno danneggiati, aggiungendo una dimensione geografica alla già profonda spaccatura degli Stati Uniti. Non è una previsione difficile, è già successo nella storia americana
C’è un nuovo elemento che potrebbe presto aggiungersi alla guerra civile a bassa intensità fra repubblicani e democratici: i dazi sulle importazioni. Trump fa il giocoliere con i dazi come fossero torce accese che volteggiano ma poi tornano sempre in mano sua.
Però ci sono Stati che saranno avvantaggiati dai dazi e altri che saranno danneggiati, aggiungendo una dimensione geografica alla già profonda spaccatura degli Stati Uniti. Non è una previsione difficile, è già successo nella storia americana: il Sud delle piantagioni era a favore del libero scambio e il Nord delle fabbriche nascenti era a favore dei dazi. Com’è finita?
Sì. La Guerra di secessione (1861-1865) è stato un conflitto per il controllo dell’espansione all’Ovest. È stata una guerra per la supremazia nel governo federale. A partire da un certo punto è stata una guerra per mantenere o abolire la schiavitù. Ma, insieme a tutto questo, è stata anche una guerra tra mercantilismo e libero scambio, ovvero tra il Nord che voleva proteggere le sue industrie dalla concorrenza straniera, in particolare inglese, e il Sud che invece esigeva la massima libertà di commercio perché il suo cotone era diretto proprio in Gran Bretagna, dove alimentava le fabbriche tessili, quelle che il poeta William Blake chiamava dark satanic mills (buie fabbriche di Satana).
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In realtà l’intero mondo industriale era controllato dalle forniture di cotone del Sud. Il cotone era il principale articolo del commercio internazionale e rappresentava metà di tutte le esportazioni degli Stati Uniti. Era la materia prima essenziale per centinaia di migliaia di operai nel Nord e in Europa. E, soprattutto, “il Sud aveva un quasi monopolio nella produzione mondiale del cotone perché il sistema di schiavitù nelle piantagioni poteva produrre fibre di alta qualità molto più a buon mercato di qualsiasi altro produttore esistente o potenziale” come scriveva anni fa lo storico William Fogel.
Fu questa fiducia nella loro economia e nel loro rapporto con il mercato inglese a spingere le scervellate classi dirigenti del Sud alla secessione, che sarebbe stata protetta – speravano – dal riconoscimento diplomatico della Gran Bretagna. Un riconoscimento che non avvenne mai.
La vittoria del Nord nella guerra civile fu anche la vittoria dei capitalisti del Nord impegnati nella costruzione di ferrovie, che esigevano rotaie, che esigevano acciaio, che esigeva altoforni, i quali potevano far fronte alla concorrenza inglese e tedesca soltanto al riparo da tariffe protettive molto elevate. Il massimo fu raggiunto all’inizio della presidenza di William McKinley (1897) quando furono varate misure protezionistiche anche su lana, zucchero e beni di lusso. Trump è così invaghito di McKinley che uno dei primi atti entrando in carica il 20 gennaio, è stato ribattezzare in suo onore la cima più alta degli Stati Uniti, il monte Denali in Alaska.
Purtroppo, l’economia americana del 1897 non era quella del 2025. Il bilancio federale era minuscolo, l’esercito praticamente inesistente, le voci di spesa principali erano le pensioni dei veterani e il servizio postale. Qualsiasi paragone con l’oggi è ridicolo e il premio Nobel per l’economia Paul Krugman ripete incessantemente che Trump «semplicemente non capisce come funzionano i dazi, che sono una tassa sui consumatori americani».
Soprattutto il Gangster-in-Chief che sta alla Casa Bianca non sembra rendersi conto che la rapida espansione economia del periodo 1945-1975 è stata dovuta principalmente alla progressiva riduzione delle misure protezionistiche su scala mondiale. E la singhiozzante espansione 1975-2025 è stata favorita da un’ancora più drastica riduzione dei dazi all’interno di accordi conclusi in sede di World Trade Organization. Tornare indietro è molto difficile e, soprattutto, non indolore.
Il problema a cui Trump sembra non fare caso è l’enorme integrazione su scala internazionale della produzione di qualsiasi cosa più complessa di uno stuzzicadenti. Le auto si fanno con centinaia di componenti provenienti da decine di stati diversi e il fatto che siano assemblate a Detroit non le rende particolarmente “americane”, così come gli iPhone progettati in California vengono tutti dalle fabbriche della Foxconn in Cina e Taiwan. Le tariffe su uno o più componenti rallentano la produzione, aumentano l’incertezza e disturbano i mercati.
Una forma di razionalità nel bizzarro comportamento del presidente americano però c’è: la razionalità del racket. L’esibizione di forza, le minacce e le concessioni sono tutte parte di una logica mafiosa: «Fai come dico io o ti spezzo le gambe». Minacce di invasione a parte, l’uso dei dazi è un’arma potente per convincere i produttori stranieri a trasferirsi negli Stati Uniti, unica garanzia contro rappresaglie future. Non a caso la prima azienda ad annunciare un mega investimento da 100 miliardi di dollari in Alabama è il leader mondiale dei semiconduttori, la Tsmc di Taiwan. Va anche sottolineato che la strategia di far rientrare industrie emigrate all’estero, il cosiddetto re-shoring, era stato perseguito sia da Biden che da Obama, con scarso successo.
Una debolezza fondamentale dei sistemi estorsivi, però, è il loro carattere di incertezza: nessuno sa chi sarà il prossimo bersaglio del boss, o se la tangente richiesta ieri non sarà raddoppiata domani. Questo poteva funzionare nel Sud Bronx o nel New Jersey all’epoca della famiglia Gambino ma funziona meno su scala planetaria all’epoca dell’amministrazione Trump. I mercati odiano l’incertezza e, se l’incertezza prende la forma di dazi che vanno e vengono, minacciati la mattina, attuati al pomeriggio e revocati la sera, Wall Street porta a casa i guadagni e tiene i soldi sui conti correnti (Warren Buffett, l’ottuagenario fondatore del fondo Berkshire Hathaway, ripete da mesi che il suo gruppo tiene i dollari in banca). L’indice Nasdaq, quello delle aziende tecnologiche, ha perso il 15% in tre settimane e la corsa al ribasso non sembra volersi fermare. Chissà se qualcuno dei miliardari presenti al giuramento di Trump il 20 gennaio riuscirà a spiegarglielo prima che sia tardi.
* Fonte/autore: Fabrizio Tonello, il manifesto
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