Venti di guerra. Deterrenza armata, il gioco pericoloso dell’Occidente

Venti di guerra. Deterrenza armata, il gioco pericoloso dell’Occidente

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Leggere un editoriale del Times di Londra dell’ottobre 1934 dovrebbe farli riflettere. Parlando di Benito Mussolini, il quotidiano inglese giustificava così la sua retorica militarista: «La sua difesa del “si vis pacem, para bellum” dovrebbe essere vista come realismo, non come sete di guerra»

Se vogliamo il burro domani, servono i cannoni oggi. Accettata questa logica, lo spazio di manovra si restringe: la scelta ricade necessariamente sui cannoni e dunque sulla spesa per il riarmo. Il si vis pacem, para bellum è un argomento onnipresente nel dibattito delle istituzioni nazionali e internazionali, un discorso pubblico egemone che tende a limitare le alternative e a restringere il campo del pensiero politico.

A marzo 2024, Charles Michel, allora presidente del Consiglio europeo, dichiarava: «Se vogliamo la pace, dobbiamo prepararci alla guerra». A gennaio di quest’anno, Mark Rutte, nuovo segretario generale della Nato, affermava la necessità di un «passaggio a una mentalità da tempo di guerra». Dalla Cancelleria tedesca a Downing Street, i richiami a prepararsi alla guerra per garantire la pace si fanno sempre più insistenti.
Nella storia, l’adagio è stato spesso richiamato dai leader delle democrazie.

Anche nel celebre discorso d’addio del 1961 del presidente americano Eisenhower si evidenziava la centralità della deterrenza armata: «Un elemento vitale per mantenere la pace è il nostro apparato militare». In quello stesso anno, John F. Kennedy rifletteva sulla logica della deterrenza: «Con queste armi formidabili, gli avversari della libertà progettano di consolidare il loro territorio, di sfruttare, controllare… E in questo contesto, non possiamo restare a guardare». Tuttavia introduceva l’idea di una nuova legge per lo sviluppo internazionale: il Foreign Assistance Act, che avrebbe consolidato i programmi di assistenza estera per contrastare l’influenza sovietica e rafforzare il soft power statunitense attraverso la creazione dell’agenzia Usaid. Proprio quella che Trump intende liquidare.

In presenza di sfide complesse, può emergere il tentativo di superare la dicotomia tra pacifismo e militarismo, mettendo in luce le implicazioni di lungo periodo della riorganizzazione economica e industriale e il mutamento nei rapporti di forza tra i gruppi sociali.

Oggi, coloro che invocano la logica della guerra come presupposto per la pace si considerano forse i veri realisti del momento, in contrapposizione agli idealisti internazionalisti. Eppure, leggere un editoriale del Times di Londra dell’ottobre 1934 dovrebbe farli riflettere. Parlando di Benito Mussolini, il quotidiano inglese giustificava così la sua retorica militarista: «La sua difesa del “si vis pacem, para bellum” dovrebbe essere vista come realismo, non come sete di guerra».

Oggi c’è sempre meno distanza tra la deterrenza militare a garanzia di una pace armata e la spirale della corsa agli armamenti che alimenta guerre e violenza. Non possiamo limitarci a discutere solo di investimenti militari. Né ignorare gli effetti di lungo periodo della spesa per la difesa sull’economia e sulle società europee. Vanno posti dei limiti alle pressioni dell’industria bellica. E mentre gli Usa si allontanano dalle Nazioni unite noi europei dovremmo rilanciare il multilateralismo.

Gli investimenti nella difesa nel medio periodo non saranno comunque sufficienti a garantire un’autonomia militare europea. Invece che concentrare tutte le energie sul riarmo, bisognerebbe domandarsi quali strumenti utilizzare per promuovere lo sviluppo economico in paesi sempre più scettici verso i regimi democratici. E come investire nel dialogo per riformare le istituzioni internazionali e rafforzare i processi di mediazione diplomatica.

Normalizzare e accettare il principio del prepararsi alla guerra per garantire la pace ci costringe ad affrontare le sfide della sicurezza globale con un approccio esclusivamente militare. Mentre l’Europa e il mondo intero avrebbero bisogno di strategie e azioni multilaterali, ben oltre la sfera della sola difesa.

* Fonte/autore: Andrea Ruggeri, il manifesto



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