Gli Stati uniti nell’epoca di Donald Trump: esseri umani trattati come detriti del capitale

Gli Stati uniti nell’epoca di Donald Trump: esseri umani trattati come detriti del capitale

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Se la nuova amministrazione Trump ha reso esplicito questo sistema brutale di sfruttamento che fa degli esseri umani i detriti del capitale e ha accelerato in maniera drammatica i controlli e le punizioni, è bene ricordare che si tratta di procedure strutturali di lunga data

Nella vetrina di un supermercato latino nella cittadina di Santa Cruz c’è un avviso con i numeri da chiamare nei diversi distretti della California centrale per una risposta rapida nel caso in cui arrivassero le forze dell’ordine – il famigerato Ice – con l’intenzione di procedere a una deportazione.

L’avviso si conclude con la frase: «Ningún ser Humano es ilegal». Nei campi sterminati di fragole e carciofi più a sud, attorno a Monterey, molti lavoratori non si presentano al lavoro, i loro figli non vanno a scuola e nessuno cerca assistenza medica. Tutti hanno paura di essere portati con la forza oltre il confine meridionale. Il tempo si è fermato. La minaccia di quel viaggio resta un’ombra costante, condensata nella canzone di Woody Guthrie “Deportee” del 1948, di cui circolano diverse versioni in rete. Partendo da una canzone, è possibile riscrivere la storia della modernità.

Se la nuova amministrazione Trump ha reso esplicito questo sistema brutale di sfruttamento che fa degli esseri umani i detriti del capitale e ha accelerato in maniera drammatica i controlli e le punizioni, è bene ricordare che si tratta di procedure strutturali di lunga data. Ormai estese a qualsiasi corpo esterno che disturbi il tessuto ideologico della politica repressiva e di controllo nell’Occidente. I migranti illegali, come gli studenti stranieri che protestano contro la politica genocida dello stato di Israele, come gli enti pubblici che mettono in discussione l’assetto attuale di potere in termini di generi, razza e diritti, tutti possono essere catturati, identificati e puniti.

Quasi mezzo secolo fa, un gruppo di studiosi inglesi, sotto la guida dell’intellettuale giamaicano Stuart Hall, aveva analizzato questa strategia in termini di «sorveglianza delle crisi» (policing the crisis), dove le pratiche della polizia si estendono dalla sicurezza pubblica fino a diventare parte integrante dell’amministrazione culturale dello Stato. Allora, furono i giovani neri – quelli che oggi si chiamerebbero «seconda generazione» – a essere identificati come capri espiatori della crisi della società britannica; oggi, la logica si è estesa a sorvegliare e punire qualsiasi forma di dissenso.

Così, quando recentemente sei giovani donne si sono incontrate in una sede quacchera a Londra per prendere del tè e discutere della crisi climatica e di Gaza, è arrivata la polizia per arrestarle con l’accusa di cospirazione. Con l’applicazione di leggi restrittive recentemente introdotte nel Regno unito, anche un pensiero può essere preventivamente condannato se minaccia la «libertà» non dei cittadini, ma dei governi, del capitale e delle grandi aziende private di operare indisturbati. In fondo, quelli che protestano e interrogano la riproduzione dello status quo si sono autoesclusi dalla narrazione unica della nazione e perciò sono facilmente etichettati come traditori, estremisti, antisemiti, terroristici, animali, minaccia alla civiltà, meno che umani…

Il riarmo europeo, la difesa occidentale ad oltranza del colonialismo israeliano, il fatto di percepire migranti, fluidità e libertà di genere, corpi e culture non occidentali come una minaccia persistente segna l’implosione della cosiddetta società multiculturale.

Ora si torna alle sicurezze fondamentali, ben saldi nei miti delle identità nazionali e razziali. Si elimina lo spazio per la discussione, la critica, la sperimentazione e la possibilità di prendere in considerazione diversi futuri. La crisi climatica non esiste e il mondo sta bene così com’è. Ovviamente, questa è una visione ristretta a coloro che beneficiano di tale impostazione. Sotto la tutela di un regime di paura, solo chi è al comando – Trump, Starmer, Macron, von der Leyen, Meloni – può oligarchicamente prevedere tempi migliori per i suoi seguaci.

In questo spettacolo della post democrazia, anche le istituzioni che dovrebbero incoraggiare un approccio disincantato – le scuole, le università, la stampa, i media visivi e digitali – sono spinte a piegarsi a un pensiero unico. Quasi tutti si sono resi complici, anche nel loro silenzio e nel loro tentativo di continuare business as usual, chiudendo i confini, sia fisici sia mentali. Il pensiero diventa un prodotto, la conoscenza è ridotta a pura informazione. La guerra in Ucraina, i massacri in Palestina e le migrazioni dai Paesi non occidentali (se questa distinzione geo-filosofica ha ancora un senso) hanno come unica spiegazione quella che serve a riconfermare la nostra sovranità. La spinta critica e innovativa che l’Occidente pensava di rappresentare a livello globale si è infranta nell’autocompiacimento della colonizzazione.

Ma al di là di questo specchio frantumato, il mondo è grande. Le egemonie passano. E mentre in Europa si preparano i kit di sopravvivenza per la prossima guerra, il fascismo del capitale – come diceva la signora Thatcher: «Non c’è alternativa» – è destinato a raggiungere i suoi limiti e a rompersi negli spazi e nelle risorse limitate che nessuna soluzione tecnologica è in grado di tamponare. La fragilità della nostra casa-pianeta si intensificherà ben oltre i limiti dei suoi biechi controlli politici.

Nel frattempo, in una sfida che si prende beffa della presenza umana, i condor continuano a planare sulle correnti d’aria calda sulle ripide colline del Big Sur, a sud di Monterey, dove il confine dell’Occidente si getta nell’oceano Pacifico.

* Fonte/autore: Iain Chambers, il manifesto



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