Gaza, Israele demolisce tutto per impedire il ritorno

La distruzione sistematica come obiettivo di guerra. Bulldozer, esplosivi, incendi: l’esercito rade al suolo le città e getta così le basi della pulizia etnica. Le testimonianze dei soldati di stanza a Gaza: «Ci svegliavamo e al battaglione veniva assegnata una compagnia di ingegneria per la giornata: demolivamo da uno a cinque edifici»
* Pubblichiamo l’inchiesta della rivista israelo-palestinese +972mag e di Local Call
All’inizio di aprile, poche settimane dopo aver ripreso l’assalto a Gaza, le forze israeliane hanno annunciato di aver preso il controllo della città più a sud, Rafah, per creare l’«Asse di Morag», un nuovo corridoio militare che divide ulteriormente la Striscia. Nel corso della guerra, secondo l’Ufficio governativo dei media di Gaza, l’esercito ha distrutto più di 50mila unità abitative a Rafah – il 90% dei quartieri residenziali. Ora l’esercito ha proceduto a spianare le strutture rimanenti di Rafah, trasformando l’intera città in una zona cuscinetto e tagliando l’unico passaggio di frontiera di Gaza con l’Egitto.
Y., un soldato tornato di recente dal servizio di riserva a Rafah, ha descritto i metodi di demolizione dell’esercito a +972 Magazine e Local Call. «Ho messo in sicurezza quattro o cinque bulldozer (di un’altra unità) e hanno demolito 60 case al giorno. Una casa di uno o due piani viene abbattuta nel giro di un’ora; per una casa di tre o quattro piani ci vuole un po’ più di tempo», dice. «La missione ufficiale era aprire una via logistica per le manovre, ma in pratica i bulldozer distruggevano semplicemente le case. La parte sud-orientale di Rafah è completamente distrutta. L’orizzonte è piatto. Non c’è nessuna città».
La testimonianza di Y. è coerente con quella di altri 10 soldati che hanno prestato servizio in tempi diversi nella Striscia di Gaza e nel Libano meridionale dal 7 ottobre e che hanno parlato con +972 Magazine e Local Call. Si allinea anche con i video pubblicati da altri soldati, con le dichiarazioni ufficiali e ufficiose di alti ufficiali attuali e precedenti, con le immagini satellitari e i rapporti delle organizzazioni internazionali.
L’insieme di queste fonti dipinge un quadro chiaro: la distruzione sistematica di edifici residenziali e strutture pubbliche è diventata una parte centrale delle operazioni dell’esercito israeliano e, in molti casi, l’obiettivo primario.
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Alcune di queste devastazioni sono il risultato dei bombardamenti aerei, dei combattimenti a terra e degli ordigni esplosivi improvvisati piazzati dai militanti palestinesi all’interno degli edifici di Gaza. Tuttavia, sebbene sia difficile ottenere cifre precise, sembra che la maggior parte delle distruzioni a Gaza e nel Libano meridionale non siano state effettuate dall’aria o durante i combattimenti, ma piuttosto da bulldozer o esplosivi israeliani, atti premeditati e intenzionali.
Secondo +972 e l’indagine di Local Call, ciò è stato determinato da una decisione consapevole e strategica di «appiattire l’area», per garantire che «il ritorno della gente in questi spazi non avvenga», come dice Yotam, che ha servito come vice comandante di compagnia in una brigata corazzata a Gaza.
Le distruzioni «non operative», prive di una giustificazione militare diretta, sono iniziate nei primi mesi di guerra: già nel gennaio 2024, il sito investigativo israeliano The Hottest Place in Hell ha riferito che l’esercito ha effettuato la «distruzione sistematica e completa di tutti gli edifici vicino alla recinzione entro un chilometro nella Striscia, senza che fossero identificati come infrastrutture terroristiche né dall’intelligence né dai soldati sul campo», con l’obiettivo di creare una «zona cuscinetto di sicurezza».
Il rapporto citava soldati secondo cui nelle aree vicine alla recinzione di confine, come Beit Hanoun e Beit Lahiya, e nel quartiere di Shuja’iyya nella parte settentrionale della Striscia, così come a Khirbet Khuza’a alla periferia di Khan Younis, tra il 75 e il 100% degli edifici erano stati distrutti, quasi indiscriminatamente. Ma ciò che è iniziato nelle periferie di Gaza è presto diventato un metodo ampiamente diffuso in tutta la Striscia, legato al più ampio piano di Israele di rendere invivibile gran parte di Gaza per i palestinesi.
Secondo Michael Sfard, avvocato israeliano ed esperto di diritti umani, queste azioni equivalgono a chiare violazioni delle leggi di guerra. «La distruzione di proprietà (individuali) non richiesta dalle necessità della guerra costituisce un crimine di guerra – spiega Sfard – e c’è anche un crimine di guerra specifico e più grave che consiste nella distruzione (volontaria e) estesa di proprietà non giustificata da necessità militari. Tra gli esperti legali, gli attivisti per i diritti umani e gli accademici si discute molto sulla necessità di istituire un crimine contro l’umanità di “domicicidio”, la distruzione di un’area utilizzata per l’abitazione umana».
Nessun luogo dove tornare
Da quando Israele ha violato il cessate il fuoco a marzo, circa 2.800 palestinesi sono stati uccisi a Gaza, con 53mila morti e 120mila feriti nel corso della guerra; come +972 ha precedentemente riportato, gli attacchi aerei hanno rappresentato la stragrande maggioranza delle vittime civili. Ma è la distruzione sistematica dello spazio urbano di Gaza che sta gettando le basi per la pulizia etnica della Striscia, definita nel discorso politico israeliano «attuazione del Piano Trump».
Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha apertamente appoggiato questa visione alla fine di marzo, poco dopo la ripresa della guerra da parte di Israele: «Hamas deporrà le armi. Ai suoi leader sarà permesso di andarsene. Provvederemo alla sicurezza generale della Striscia di Gaza e permetteremo la realizzazione del piano Trump per la migrazione volontaria – ha affermato Netanyahu – Questo è il piano. Non lo stiamo nascondendo e siamo pronti a discuterne in qualsiasi momento».
Proprio questa settimana, Netanyahu ha reso più esplicito il legame tra la distruzione di edifici civili e lo sfollamento forzato: «Stiamo distruggendo sempre più case, non hanno un posto dove tornare – avrebbe detto durante una riunione del Comitato per gli affari esteri e la sicurezza – L’unico risultato atteso sarà il desiderio dei gazawi di emigrare fuori dalla Striscia».
Nel dicembre 2024 le Nazioni unite hanno stimato che il 69% di tutti gli edifici di Gaza – tra cui 245milaunità abitative – erano stati danneggiati, con oltre 60mila edifici completamente distrutti. Alla fine di febbraio la cifra era salita a 70mila, secondo Adi Ben Nun, specialista GIS dell’Università Ebraica di Gerusalemme, che ha condotto un’analisi satellitare per +972 e Local Call. A marzo sono state distrutte almeno altre 2mila strutture, di cui più di mille solo a Rafah.
Ora, secondo un’analisi visiva condotta dal ricercatore Ariel Caine per Local Call e +972, oltre il 73% degli edifici di Rafah e dintorni è stato completamente distrutto, mentre meno del 4% non presenta danni visibili. L’area conteneva circa 28.332 edifici, che si estendevano dal Corridoio di Filadelfia all’Asse di Morag.
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Alcuni degli edifici di Gaza completamente rasi al suolo dai bulldozer o dagli esplosivi nelle demolizioni pianificate erano stati danneggiati in precedenza, sia da attacchi aerei che durante le battaglie di terra. Tuttavia, un’indicazione del gran numero di strutture distrutte senza necessità operative viene dai dati delle Nazioni unite: tra settembre e dicembre 2024 – un periodo durante il quale non ci sono stati intensi combattimenti a Gaza – sono stati danneggiati più di 3mila edifici in più a Rafah e circa 3.100 nuovi edifici nel nord della Striscia.
L’arma principale nell’arsenale di distruzione dell’esercito è il bulldozer corazzato D9 della Caterpillar, a lungo utilizzato per commettere violazioni dei diritti umani nei Territori palestinesi occupati. Ma i soldati che hanno parlato con +972 e Local Call hanno anche descritto un altro metodo usato per far crollare interi blocchi residenziali: riempire container o veicoli militari in disuso con materiale esplosivo e farli detonare a distanza.
«Alla fine, il D9 (bulldozer corazzato) ha plasmato il volto della guerra – ha twittato il giornalista israeliano di destra Yinon Magal all’inizio di febbraio – È ciò che ha fatto sì che i gazawi tornassero a sud, dopo che (erano venuti a nord nelle loro case durante il cessate il fuoco e) si erano resi conto di non avere un posto dove tornare… E questa non è stata una direttiva del capo di stato maggiore o dello stato maggiore. È stata una politica del ‘campo’, dei comandanti di divisione, dei comandanti di brigata, dei comandanti di battaglione e persino delle squadre di ingegneria militare che hanno cambiato la realtà».
Un ex alto funzionario della sicurezza nell’esercito israeliano, che ha mantenuto i contatti con molti comandanti, ha confermato che alcuni alti ufficiali sul campo si sono presi la responsabilità di ordinare la distruzione del maggior numero possibile di edifici a Gaza, anche in assenza di direttive militari formali da parte di alti ufficiali. «Ho ricevuto segnalazioni da ufficiali che sono state intraprese azioni inutili da un punto di vista operativo: demolire le case, costringere decine e centinaia di migliaia di residenti ad andarsene, distruggere sistematicamente Beit Hanoun e Beit Lahiya. Mi hanno detto che le unità D9 operavano fuori dal loro controllo – dichiara a +972 e Local Call – Non so quale sia la percentuale di distruzione non operativa, ma è molto alta».
I comandanti a Gaza hanno un’ampia discrezionalità per quanto riguarda la demolizione degli edifici, ha ammesso una fonte militare ufficiale, negando però che a Gaza ci sia una direttiva di «distruggere per il gusto di distruggere. Un comandante può abbattere un edificio che potrebbe rappresentare una minaccia», dice, facendo notare che comandanti di livello più basso potrebbero essere stati i responsabili delle distruzioni più diffuse.
Nel frattempo, diversi riservisti hanno testimoniato che il metodo dell’esercito di spianare sistematicamente e deliberatamente le infrastrutture civili è stato impiegato anche nel sud del Libano, durante l’invasione di terra dell’ottobre-novembre 2024. Secondo un riservista, i preparativi per l’invasione includevano un addestramento alla demolizione, dove l’obiettivo esplicitamente dichiarato era distruggere i villaggi sciiti, quasi tutti definiti come roccaforti di Hezbollah, per impedire ai residenti di tornare.
«Se i soldati si sono presi il loro tempo, controllando a quale muro attaccare l’esplosivo, e poi sono usciti dall’edificio e hanno filmato l’esplosione, questo dimostra che non c’era alcuna giustificazione (operativa)», ha spiegato Muhammad Shehada, visiting fellow presso l’European Council on Foreign Relations e nativo di Gaza.
Un suo amico, che ha un passaporto straniero ed è entrato a Gaza durante il cessate il fuoco, gli ha descritto la metodicità della distruzione. «Ha detto che si poteva vedere che (i soldati) avevano demolito una casa, ripulito le macerie e passato a quella successiva».
Prima della guerra lo stesso Shehadeh viveva a Tel Al-Hawa, un quartiere di Gaza noto per i suoi grattacieli e sede di funzionari e accademici, non lontano dal corridoio di Netzarim. «Quando i residenti di Gaza sentono che l’esercito sta per aprire un corridoio, si rendono conto che non rimarrà un solo edificio – dice – Sapevamo che Tel Al-Hawa sarebbe scomparsa».
Il messaggio è chiaro: «Distruggeremo»
Quando il cessate il fuoco è entrato in vigore alla fine di gennaio, migliaia di palestinesi si sono affrettati a tornare a Jabaliya, nel nord di Gaza, solo per scoprire che il campo profughi come lo conoscevano non esisteva più, con interi quartieri ridotti in macerie. I loro racconti della distruzione sono coerenti con le testimonianze dei soldati che hanno prestato servizio a Jabaliya dall’ottobre 2024, quando l’esercito israeliano è rientrato nel campo, fino al cessate il fuoco.
Avraham Zarviv, un operatore del D9 che è diventato noto come lo «Spianatore di Jabaliya» per i video di distruzione che ha caricato sui social media, ha spiegato i suoi metodi in un’intervista a Canale 14.
«Non avevo mai visto un trattore in vita mia, solo in fotografia», ha detto Zarviv, che nella vita civile è un giudice del tribunale rabbinico. La Brigata Givati, in cui prestava servizio, decise pochi mesi dopo l’inizio della guerra di creare un’unità ingegneristica specializzata in operazioni di demolizione. «Siamo saliti su trattori, D9, escavatori… abbiamo imparato il mestiere, siamo diventati altamente professionali. Non potete capire cosa significhi abbattere un edificio – sette, sei, cinque piani – uno dopo l’altro».
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Tra l’ottobre 2024 e il gennaio 2025, Zarviv ha raccontato che ogni settimana distruggeva in media «50 edifici, non unità abitative, edifici… A Rafah non hanno un posto dove andare, a Jabaliya non hanno un posto dove tornare». Zarviv è tornato di recente a prestare servizio a Rafah. Prima del seder di Pasqua, nell’aprile di quest’anno, ha caricato un video da Rafah che lo ritrae sullo sfondo di una strada dove alcuni edifici sono ancora in piedi. Zarviv non ha specificato nel video cosa stesse facendo esattamente a Rafah, ma ha detto di essere tornato «per combattere fino alla vittoria, fino all’insediamento… Siamo qui per sempre».
Mentre alcuni operatori del D9 come Zarviv hanno rivendicato con orgoglio i loro crimini di guerra, altri soldati non parlano pubblicamente della distruzione, secondo Y. «C’è apatia: Le persone sono al loro quarto o quinto dispiegamento, si sono abituate». Ma a prescindere dal loro livello di zelo, afferma Y., i soldati hanno capito come dovevano essere usati i bulldozer. «Non c’è stato un ordine formale (di decimare Rafah), ma il messaggio è chiaro: distruggeremo e basta».
Il completo annientamento di Rafah da parte dell’esercito è avvenuto nonostante il fatto, come nota Y., che «non ci sono stati confronti (con combattenti di Hamas), abbiamo incontrato solo dei paramedici», un riferimento all’incidente in cui i soldati israeliani hanno ucciso 15 paramedici e vigili del fuoco nel quartiere Tel Al-Sultan della città.
Come Y., gli altri soldati intervistati da +972 e Local Call hanno detto di non aver visto alcun ordine scritto da parte dello stato maggiore dell’esercito di effettuare le demolizioni e che di solito tali ordini provengono dal livello di brigata o di divisione.
L’ex alto funzionario della sicurezza ha dichiarato di aver contattato lo stato maggiore dopo aver appreso delle distruzioni sistematiche nella Striscia settentrionale, ed è «convinto che ciò non provenga dal capo di stato maggiore, ma che egli ne abbia perso il controllo. Le distruzioni che non sono legate a obiettivi militari sono un crimine di guerra. Questo è venuto dal basso (da ufficiali di medio livello, compresi i comandanti di brigata e di battaglione). La vendetta non è un obiettivo militare ufficiale, ma è stato permesso che accadesse».
Quando entri in una casa, la fai saltare in aria
H. ha prestato servizio nelle riserve a Gaza due volte, la prima all’inizio del 2024 e la seconda tra maggio e agosto come comandante della sala operativa di un battaglione di stanza nel corridoio di Netzarim. «Durante il mio primo servizio di riserva, ero a Khirbet Khuza’a (un villaggio vicino a Khan Younis). Abbiamo distrutto tutto, ma c’era una logica: espandere la linea di contatto (zona cuscinetto) perché era vicina al confine», dice.
«(La seconda volta), l’area in cui eravamo era lungo il Corridoio Netzarim, sul mare. Non c’era giustificazione operativa per demolire edifici. Non ponevano alcuna minaccia a Israele. Era diventata una routine: l’esercito si è abituato all’idea che quando entri in una casa la fai saltare in aria. Non si è trattato di un’iniziativa locale, ma del comandante del battaglione – prosegue – Gli obiettivi di demolizione (edifici contrassegnati per la distruzione) sono stati inviati alla brigata. Suppongo che sia arrivato anche alla divisione. Il comandante del battaglione segnava gli edifici con una X e controllava quanti esplosivi erano disponibili. Inviavano un comandante di compagnia per verificare che non ci fossero prigionieri di guerra o dispersi (ostaggi) all’interno. Nei casi in cui i palestinesi erano ancora nelle case, veniva detto loro di andarsene, ma erano casi rari».
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Secondo H, la distruzione era una questione quotidiana. «Alcuni giorni abbiamo demolito otto o dieci edifici, altri giorni nessuno. Ma in generale, nei 90 giorni in cui siamo stati lì, il mio battaglione ha distrutto tra i 300 e i 400 edifici. Ci allontanavamo di 300 metri e li facevamo saltare in aria».
Quando H. è arrivato al corridoio di Netzarim nel maggio 2024, la sua larghezza si estendeva solo per poche decine di metri a nord e a sud. Quando ha completato il suo servizio, tre mesi dopo, le demolizioni avevano ampliato il corridoio a sette chilometri su ogni lato. «Abbiamo preso tre chilometri da Zaytoun (a nord di Netzarim) e anche da Al-Bureij e Nuseirat (a sud). Non è rimasto nulla, nemmeno un muro più alto di un metro. La scala e l’intensità della distruzione è così massiccia, è indescrivibile».
Yotam, vice comandante di compagnia, si è arruolato nelle riserve il 7 ottobre e ha prestato servizio per 207 giorni a Gaza, partecipando alla prima incursione di terra a Gaza City e lungo il corridoio di Netzarim. In seguito è stato congedato dal servizio dopo aver firmato una lettera in cui chiedeva ai soldati di smettere di prestare servizio fino alla restituzione degli ostaggi.
«Ci svegliavamo e al battaglione veniva assegnata una compagnia di ingegneria per la giornata, insieme a una quantità specifica di esplosivi – spiega Yotam, descrivendo come iniziavano le missioni di demolizione – Questo significava demolire da uno a cinque edifici (in un giorno)».
In qualità di vice comandante di compagnia, Yotam era incaricato di guidare le missioni. «Sono andato dal comandante del battaglione che mi ha detto: ”Trova qualcosa di rilevante sul campo e demoliscilo”. Gli ho detto: “Non farò una missione del genere”. Così sono andato dal comandante della compagnia di ingegneria, abbiamo aperto una mappa e selezionato cinque edifici. Se non l’avessimo fatto, avrebbero scelto edifici a caso… In ogni caso, volevano demolire l’intero quartiere. La sensazione generale era: “Oggi abbiamo una compagnia di ingegneria, andiamo a distruggere qualcosa”».
Come altri soldati che hanno parlato con +972 e Local Call, Yotam ha affermato che l’obiettivo militare primario nella seconda fase della guerra, a marzo e aprile 2024, era la distruzione fine a se stessa. Ha aggiunto che un comandante di divisione ha detto che si tratta di una «leva di pressione su Hamas» per raggiungere un accordo sugli ostaggi, ma a livello pratico «questa non è una missione operativa. Non serve a nulla di concreto. Non ci sono protocolli in merito».
Yotam ha detto che nell’area di Netzarim, le unità sul campo avevano una notevole libertà di decidere cosa distruggere. «Il pensiero operativo era che questo è un territorio che l’Idf detiene e che non restituirà presto, e a nessuno interessa la vita dei palestinesi che erano lì. Non è un’area che diventerà di nuovo un quartiere palestinese. Ho visto con i miei occhi centinaia di edifici rasi al suolo. Interi quartieri a nord dell’ospedale turco (nella Striscia di Gaza centrale) sono stati rasi al suolo. Non si può rimanere indifferenti di fronte a una tale portata di distruzione».
«Uno spettacolo ogni sera»
Diversi soldati intervistati hanno descritto i rituali cerimoniali che hanno accompagnato le demolizioni a Gaza. Un caporale riservista della Brigata 55, che ha prestato servizio vicino a Khan Younis, ha parlato della sua esperienza in missione: «Passavamo attraverso le case, confermavamo che non c’erano informazioni di interesse o militanti presenti, e poi l’unità di ingegneria entrava in ogni edificio con cariche da 10 chili, che attaccavano alle colonne di sostegno – dice – Era come uno spettacolo ogni sera: un ufficiale superiore, di solito un comandante di compagnia o superiore, si metteva in contatto via radio con l’unità di disinnesco bombe e il corpo di ingegneria, faceva un discorso sul motivo per cui eravamo qui, faceva il conto alla rovescia e poi boom. Ci guardavamo indietro e non c’era più nulla in piedi».
Yotam ha parlato di questi rituali anche durante il suo servizio di riserva a Gaza: «Quando una fila di edifici veniva fatta saltare in aria, il comandante del battaglione si metteva alla radio e diceva qualcosa di eroico su qualcuno che era stato colpito da un’esplosione e continuava nella missione, e allora hanno fatto saltare in aria un intero isolato».
Un’altra pratica comune era quella di bruciare le case che le forze israeliane avevano usato come strutture militari temporanee, segnando la fine di una missione, come +972 ha precedentemente documentato. «Era una routine, lo facevano sempre – dice Yotam – In seguito hanno smesso e hanno bruciato solo le case che erano state usate come centri di comando».
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I soldati comprendevano anche il significato più ampio dietro queste demolizioni rituali. In assenza di un obiettivo operativo, ne servivano uno politico e ideologico: rendere Gaza invivibile per le generazioni a venire.
«Alla fine non stiamo combattendo un esercito, ma un’idea – ha dichiarato il comandante del Battaglione 74 al quotidiano israeliano Makor Rishon nel dicembre 2024 – Se uccido i combattenti, l’idea può ancora rimanere. Ma voglio rendere l’idea impraticabile. Quando guarderanno Shuja’iyya e vedranno che non c’è nulla, solo sabbia, questo è il punto. Non credo che potranno tornare qui per almeno 100 anni».
«Nessuno meglio di noi sa che i gazawi non hanno un posto dove tornare», spiega un comandante, il cui battaglione è stato coinvolto nella distruzione di circa mille edifici in due mesi nel 2025. Un soldato che ha prestato servizio nello stesso battaglione aggiunge: «L’idea era di distruggere tutto. Creare strisce di distruzione».
Nell’aprile del 2025, il giornalista israeliano Yaniv Kubovich è entrato nell’«Asse di Morag» – la striscia di terra che l’esercito ha sgomberato tra Khan Younis e Rafah – e ha riferito di aver visto i resti di una vecchia autoblindo vicino a un edificio distrutto.
I soldati gli hanno spiegato che si tratta di un altro metodo utilizzato per far crollare gli edifici, che provoca danni ingenti all’ambiente circostante. «L’Idf carica (l’Apc) di esplosivo e lo manda autonomamente in una strada o in un edificio che l’aviazione avrebbe precedentemente bombardato. Ma dopo un anno e mezzo di guerra, l’Apc esplosivo è diventato l’alternativa più economica».
Secondo Kubovich, i resti di questi Apc esplosivi possono essere visti ovunque nella Striscia e sembra che il loro uso sia aumentato in modo significativo rispetto alle prime fasi della guerra. A., che ha prestato servizio in più missioni a Gaza, ha detto a +972 e Local Call che questo metodo non è limitato ai vecchi Apc. «Si prendono due contenitori giganti, si usano decine se non centinaia di litri di materiale esplosivo e con un D9 o un Bobcat (piccolo bulldozer), controllati a distanza, li si posiziona in un punto predeterminato e si fa esplodere. Con una sola esplosione si abbatte un’intera strada».
«Una volta siamo entrati in un complesso che era un centro educativo giovanile – ha continuato A. – Siamo rimasti lì per una notte e poi l’hanno fatto saltare in aria. Eravamo a un chilometro e mezzo di distanza (dall’esplosione) e sentivamo ancora l’onda d’urto passare su di noi, come una forte raffica di vento. Pensavo che l’edificio mi fosse crollato addosso».
A. ha detto che a volte questo metodo veniva utilizzato per obiettivi relativamente operativi: far saltare in aria un’area in cui si sospettava la presenza di un ordigno esplosivo, ad esempio, o liberare i sentieri per le truppe.
Ma Yotam lo descrive come un altro strumento usato principalmente per abbattere edifici. La missione è definita una volta che si riceve una quantità di esplosivo, e allora si dice: «”Va bene, vai”. Parte della missione ideologica è quella di spianare gli edifici o rendere inutilizzabile un’area». Y., che ha recentemente prestato servizio a Rafah, ha anche testimoniato che «ogni notte, fanno esplodere uno o due (di questi Apc). La forza è pazzesca, appiattisce tutto ciò che lo circonda».
Mentre le forze israeliane spianano Rafah, le decine di migliaia di palestinesi costretti ad evacuare ad aprile possono sentire da lontano la distruzione delle loro case. Il dottor Ahmed al-Sufi, sindaco di Rafah, ha dichiarato a +972 e Local Call che quando è tornato in città a gennaio, all’inizio del cessate il fuoco, è rimasto scioccato nel vedere l’entità della distruzione. Ora, sfollato di nuovo fuori Rafah, sente i bombardamenti dall’aria e le esplosioni senza sosta dal suolo e teme che la situazione sia molto peggiore. «Nessuno sa che aspetto abbia ora la città, ma ci aspettiamo che sia completamente distrutta – dice – Sarà molto difficile per i residenti tornare».
«L’esercito israeliano usa diversi metodi per distruggere la città, sia attraverso incessanti bombardamenti aerei sia facendo saltare in aria gli edifici con trappole esplosive», dichiara Mohammed Al-Mughair, direttore dei rifornimenti per la protezione civile di Gaza.
«Ci sono anche robot con trappole esplosive che vengono inviati nelle case e in interi quartieri e fatti esplodere al loro interno. C’era un certo numero di aree che avevano ancora edifici intatti e abitabili (durante il cessate il fuoco), ma con questo bombardamento incessante, non sappiamo cosa sia successo lì, specialmente nelle aree che circondano il cosiddetto Corridoio Morag».
«Il nostro obiettivo era distruggere i villaggi sciiti»
Questa politica di distruzione sistematica – una tattica per impedire ai civili di tornare alle loro case – è stata attuata anche durante i due mesi di invasione di terra di Israele nel Libano meridionale. Un’analisi delle immagini satellitari di fine novembre 2024, poco dopo il raggiungimento del cessate il fuoco tra Israele e Hezbollah, ha rilevato che il 6,6% di tutti gli edifici nei distretti a sud del fiume Litani era stato completamente o pesantemente distrutto.
G., riservista del battaglione di ingegneria 7064, si è presentato all’addestramento nell’estate del 2024 in vista dell’invasione prevista. Ha raccontato a +972 e a Local Call che il briefing diceva esplicitamente che l’obiettivo del battaglione era distruggere i villaggi sciiti. «Durante l’addestramento alla demolizione prima dell’invasione (di terra), un maggiore del battaglione ci ha spiegato che il nostro obiettivo nell’entrare in Libano sarebbe stato quello di distruggere i villaggi sciiti. Non ha detto “terroristi”, “nemici” o “minacce”. Non ha usato alcun termine militare, solo “villaggi sciiti”. Si tratta di una distruzione senza scopo militare, ma solo con uno scopo politico. L’obiettivo era quello di impedire il ritorno dei residenti», prosegue G.
«Questo è stato dichiarato esplicitamente. L’idea era che non ci sarebbe stata la possibilità di ricostruire dopo la guerra. A posteriori, abbiamo visto che hanno distrutto scuole, moschee e impianti di depurazione dell’acqua». Si è rifiutato di presentarsi per un ulteriore servizio di riserva, ma non è stato punito.
Durante l’addestramento di G., non era stata indicata una distanza specifica dal confine come limite per la distruzione, ma «la Brigata 769, a cui eravamo sottoposti, decise per un raggio di tre chilometri. Da quello che ho visto (dal lato israeliano del confine), ci sono riusciti». In un’intervista a Srugim, il comandante della Brigata 769 ha confermato queste osservazioni: «Ovunque ci sia terrore, sospetto di terrore o anche solo un sentore di terrore, io distruggo, demolisco ed elimino».
L., un riservista che ha prestato servizio sia a Gaza che sul fronte orientale del Libano, ha detto che l’esercito ha portato «un numero enorme di forze di ingegneria da combattimento, sia regolari che di riserva». La sua unità in Libano «ha affrontato una resistenza minima o nulla, molto meno di quanto ci si aspettasse», e uno degli obiettivi era «distruggere tutte le infrastrutture nei villaggi, perché quasi ogni villaggio era definito come una roccaforte di Hezbollah».
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«Hanno iniziato a distruggere i villaggi in modo piuttosto completo e intenso, quasi tutte le case, non solo quelle contrassegnate come abitazioni dei comandanti di Hezbollah. Mine, esplosivi, terne, D9: hanno usato tutti gli strumenti per demolire gli edifici. Hanno anche distrutto l’energia elettrica, l’acqua e le infrastrutture di comunicazione, per renderle inutilizzabili a breve termine, e anche se (i residenti) torneranno, ci vorrà molto tempo per ricostruire».
Secondo L., le case risparmiate erano spesso quelle appartenenti a famiglie cristiane. «Ho notato che spesso gli edifici con le croci all’interno rimanevano in piedi», spiega. G., come già detto, si è rifiutato di entrare in Libano per non prendere parte alla distruzione dei villaggi, ma dal lato israeliano del confine ha visto e sentito ciò che il suo battaglione stava facendo lì. «Alcune distruzioni sono avvenute dopo che tutto era già stato catturato e non c’era più resistenza… Ho visto prove sul WhatsApp del battaglione di distruzioni intenzionali. I soldati del battaglione si sono filmati mentre facevano saltare in aria gli edifici. Il mio battaglione specifico è entrato solo dopo che non c’erano Hezbollah, né armi, né edifici utilizzati per scopi militari secondari (contro Israele), niente che (sia lecito colpire) secondo le leggi di guerra».
Questa logica di distruzione di massa è stata applicata anche in Cisgiordania, anche se su scala minore. Una fonte militare ha dichiarato a +972 e Local Call che la natura della distruzione a Gaza deriva dalle tattiche sviluppate dall’esercito nell’Operazione Scudo difensivo in Cisgiordania durante la Seconda Intifada, «esporre il terreno», nel linguaggio militare.
Secondo un rapporto dell’Ocha delle Nazioni unite del marzo 2025, dall’inizio del 2024 Israele ha demolito 463 edifici in Cisgiordania come parte dell’attività militare, sfollando quasi 40mila palestinesi dai campi di Jenin, Nur Shams e Tulkarm come parte dell’«Operazione Muro di Ferro». Nel campo profughi di Jenin, come +972 ha riferito in precedenza, l’esercito ha fatto esplodere interi blocchi residenziali e ha raso al suolo strade, parte di una campagna di re-ingegneria del campo per reprimere la resistenza palestinese e minare il diritto al ritorno.
In base alle cifre fornite dai soldati che hanno prestato servizio a Gaza, un singolo battaglione nella Striscia potrebbe distruggere così tanti edifici in una settimana. Ma l’idea di fondo è la stessa. La distruzione non è più un semplice sottoprodotto dell’attività militare di Israele, o parte di una più ampia strategia militare – sembra essere l’obiettivo stesso.
Il portavoce dell’Idf ha risposto alla nostra richiesta di commento con la seguente dichiarazione: «L’Idf non ha una politica di distruzione di edifici in quanto tali, e qualsiasi demolizione di una struttura deve rispettare le condizioni stabilite dal diritto internazionale». Le affermazioni riguardanti le dichiarazioni dei soldati sulle demolizioni non legate a scopi operativi mancano di sufficienti dettagli e non sono in linea con le politiche e gli ordini dell’Idf. Gli incidenti eccezionali sono esaminati dai meccanismi di revisione e indagine dell’Idf.
«L’Idf opera su tutti i fronti con l’obiettivo di sventare il terrorismo in una realtà di sicurezza complessa, in cui le organizzazioni terroristiche stabiliscono deliberatamente infrastrutture terroristiche all’interno di popolazioni e strutture civili. Le affermazioni contenute nell’articolo riflettono un’incomprensione delle tattiche militari di Hamas nella Striscia di Gaza e della misura in cui queste tattiche coinvolgono edifici civili. Anche in Cisgiordania (Giudea e Samaria) le organizzazioni terroristiche operano e sfruttano la popolazione civile come scudi umani, mettendola così in pericolo. Piantano esplosivi e nascondono armi nell’area. Nell’ambito della campagna contro il terrorismo nel nord della Samaria, le strade della zona vengono talvolta violate, richiedendo la demolizione di edifici in conformità con la legge. La decisione è stata presa per ragioni operative e dopo aver esaminato le alternative. L’Idf continuerà ad agire in conformità con la legge (israeliana) e con il diritto internazionale, continuerà a neutralizzare le roccaforti dei terroristi e prenderà tutte le precauzioni possibili per ridurre al minimo i danni ai civili».
* Fonte/autore: Meron Rapoport, Orev Ziv, il manifesto
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