Il genocidio palestinese e l’archivio coloniale che si riapre

Se per gran parte del mondo la modernità occidentale ha significato semplicemente colonialismo, nel corso della sua storia ha anche rappresentato un incontro persistente con intenti genocidi
Nessuno possiede una lingua. Insistere su questa banale constatazione, quando gli altri mezzi della sfera pubblica sono sempre più soggetti a censura, non significa semplicemente mantenere un distacco critico.
Se, come ha insistito Hannah Arendt, ciò che rimane è il linguaggio, allora questa affermazione propone anche l’inizio di un processo per ribaltare il suo controllo da parte della retorica mortale che attualmente cerca di esercitarlo. Il paradosso del controllo del linguaggio a sostegno dell’oscenità omicida che si sta verificando a Gaza, ovvero il diritto di Israele a difendersi da chi sta opprimendo e massacrando, ha portato a sganciare il concetto di genocidio da una definizione esclusivamente etnica e religiosa legata all’esperienza ebraica moderna.
Inizialmente, nei giorni e nelle settimane successive al 7 ottobre 2023, persino i commentatori di sinistra hanno mostrato cautela nell’applicare il termine “genocidio” ai crescenti massacri e alle uccisioni indiscriminate di civili nella Striscia di Gaza. Tuttavia, con il passare del tempo, le prove sono aumentate e sono state trasmesse in diretta streaming, oltre a essere confermate dalle dichiarazioni del governo israeliano che non lasciavano dubbi: tutti i palestinesi dovevano essere considerati animali, terroristi e combattenti da eliminare. Che il massacro abbia inizio. E continua.
Alcune testate internazionali come The Economist e The Financial Times hanno incominciato a criticare la brutalità della politica israeliana, e l’ex Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue, Josep Borrell, ha sostenuto che si tratta effettivamente di genocidio. Ultimamente il termine è comparso di sfuggita persino sul Corriere della Sera. Forse si inizia ad alzarsi un altro vento.
La redazione consiglia:
Se le accuse di antisemitismo sono diventate sempre più insensate nella loro applicazione indiscriminata a qualsiasi critica, perfino quando proviene da ebrei dissidenti, a Israele, al sionismo e alla sua arroganza coloniale di fondo, anche la controversia sull’applicazione del termine “genocidio” ha riaperto brutalmente un archivio coloniale e la sua centralità nella costruzione della modernità occidentale.
Nel 1905, Sir Roger Casement, successivamente giustiziato da Londra per le sue attività di repubblicano irlandese, scrisse un rapporto ufficiale per il governo britannico sugli abusi dei diritti umani della popolazione indigena del Congo belga. Documentò la schiavitù, le mutilazioni, le torture, gli omicidi e il regno del terrore organizzato per l’estrazione di caucciù e avorio nel feudo privato del re Leopoldo. Lì incontrò Joseph Conrad, il futuro autore di Cuore di tenebra. In seguito, condusse spedizioni di ricerca su abusi simili contro i Putumayo da parte degli imperi del caucciù in Amazzonia. In Inghilterra, i suoi resoconti provocarono l’indignazione dell’opinione pubblica e l’avvio di procedimenti giudiziari. Se in Amazzonia i morti e i massacri furono migliaia, in Congo le vittime furono molte di più, forse fino a dieci milioni. Nel 1915, lo storico britannico Arnold Toynbee preparò rapporti dettagliati per il Ministero degli Esteri britannico su quello che descrisse come lo sterminio degli armeni sotto gli Ottomani in Anatolia e nelle marce della morte nel deserto della Siria.
Il termine “genocidio” fu coniato all’inizio degli anni Quaranta dell’ultimo secolo dall’avvocato ebreo polacco Raphael Lemkin, che riconobbe l’eliminazione degli armeni come un caso di genocidio. Egli utilizzò il concetto per descrivere la distruzione di una nazione o di un gruppo etnico attraverso l’eliminazione della sua vita politica, sociale, culturale e religiosa. Il termine fu adottato come base della Convenzione sul genocidio delle Nazioni Unite nel 1948. Il documento finale fu modificato e diluito dai vincitori della Seconda guerra mondiale per proteggere le proprie storie e i propri interessi. In effetti, lo stesso Lemkin considerava il documento approvato un fallimento.
Elaborato come risposta immediata alla persecuzione degli ebrei europei e alla Shoah, Lemkin non escluse esplicitamente altre atrocità storiche né esitò ad applicare il concetto retrospettivamente. Egli considerava il genocidio una costante della storia umana e, nel periodo moderno, profondamente legato al colonialismo e all’imperialismo. Se per gran parte del mondo la modernità occidentale ha significato semplicemente colonialismo, nel corso della sua storia ha anche rappresentato un incontro persistente con intenti genocidi. Il salto temporale tra lo slogan «L’unico indiano buono è quello morto», pronunciato dai cowboy in un saloon, e «L’unico arabo buono è quello morto», scritto oggi lungo la strada in Israele, tradisce una coerenza mortale.
Ci troviamo quindi a convivere con il termine “genocidio”. Non, proprio come il colonialismo, semplicemente una cosa del passato, specifica di un tempo e di un luogo, o ristretto alla storia di un popolo. Indica strutture più profonde di potere, oppressione e brutalità che continuano a modellare le nostre vite. In questo caso, la semantica viene sottratta alla purezza teocratica e ideologica e ai guardiani di ogni singolo racconto del tempo. La lingua tradisce sempre un eccesso ineluttabile che rifiuta di essere intrappolato nei confini di un ordine imposto. Se alla fine è il linguaggio a rimanere, esso sostiene sempre un ritorno che interroga il presente proprio con ciò che cerca di negare.
* Fonte/autore: Iain Chambers, il manifesto
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