Il primato del governo Meloni: 26 mesi di crollo nella produzione industriale

Il primato del governo Meloni: 26 mesi di crollo nella produzione industriale

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L’Istat allunga ancora la sequenza iniziata con il mandato Meloni: le cause sono strutturali ma non turbano la narrazione del governo. Breve storia di un lungo declino, l’esito del fallimento di un modello economico

Dopo che la produzione industriale è rimbalzata in Germania del 3% a marzo, il primato del governo Meloni è indiscusso. Non c’è nessuno che abbia fatto peggio negli ultimi 26 mesi. Ieri l’Istat ha allungato di un’altra trentina di giorni la crisi industriale che coinvolge tutte le categorie, tranne la produzione dell’energia. A marzo l’indice generale della produzione è diminuito in termini tendenziali dell’1,8%, quello destagionalizzato è aumentato dello 0,1% da febbraio. Invece, in Germania, l’incremento mensile della produzione industriale è stato del 3,6% e dell’1,4% negli ultimi tre mesi. Segnali, ancora incerti, di ripresa in un paese in recessione che punta tutto sull’economia di guerra e sulla guerra ai migranti. Non è escluso che la ripresa tedesca possa fare sgocciolare qualcosa verso la manifattura italiana che lavora conto-terzi.

IL CROLLO DELLA PRODUZIONE industriale, che accompagna l’esperienza del governo Meloni sin dal suo inizio, va interpretato. È giusto dire, come ha fatto ieri Peppe De Cristofaro (Avs), che questa è la conferma che la narrazione ufficiale scelta dalle destre è farlocca. Gli effetti sono devastanti, a cominciare dalla qualità del lavoro e dalla consistenza dei salari. A tale proposito il segretario confederale della Cgil Pino Gesmundo ieri ha evidenziato un elemento importante nel «disastro». L’effetto della crisi industriale ha aumentato il ricorso agli ammortizzatori sociali e ai fondi di solidarietà, con un picco della cassa integrazione nell’industria che a marzo, non a caso, ha segnato un +147,71% rispetto a marzo 2024. A questo bisogna aggiungere i 115 mila e più lavoratori a rischio coinvolti nei tavoli di crisi e il calo del fatturato con perdite superiori ai 40 miliardi di euro. «Il Ministro Urso continua a raccontare imperterrito che tutto va bene, nonostante le sue quotidiane rassicurazioni siano smentite dai dati – ha detto Gesmundo – Il governo affronti con realismo questa drammatica realtà e si assuma le proprie responsabilità».

MA UN ESERCIZIO di «realismo» Meloni & Co. lo stanno facendo, anche se non nel senso auspicato dalla Cgil. In uno scenario in cui il paese sembra essere destinato a perdere una quota significativa della sua capacità industriale, anche in termini di produttività e investimenti, il governo si barcamena nell’attesa che Trump dia seguito alle minacce dei dazi o si accordi con la Commissione Europea.

IL MINISTRO dell’Economia Giorgetti amministra un condominio, da «padre di famiglia» lui dice, senza sapere se il Pil andrà sotto zero a causa dei dazi che colpiranno di più un paese esportatore come l’Italia, oppure continuerà nel piccolo cabotaggio. Antonio Misiani, responsabile economico del Pd, ieri si domandava che fine ha fatto il «piano-anti dazi da 25 miliardi» annunciato da Meloni. Nessuno, in effetti. Non solo non c’è una politica industriale, ma non c’è certezza da oggi a sei mesi. Il governo improvvisa. Come sul Pnrr di cui è trapelata la notizia di una quinta revisione, a un anno dal termine. Non si sa ancora se e come saranno spesi 14 miliardi da riprogrammare. Senza contare il fatto che, per stilare la vera legge di bilancio 2026, il governo resta in attesa di conoscere il costo del pizzo da versare alla Nato nei prossimi anni. Solo il 24 giugno, forse, lo apprenderà al vertice all’Aja: sarà a 3% o al 3,5%? E passerà il trucco contabile che Meloni e i suoi hanno sfoggiato, già a Washington da Trump, per cui già oggi l’Italia avrebbe raggiunto il 2% contando le spese per i carabinieri, guardia di finanza e costiera?

L’IMPOTENZA davanti all’«industricidio», così lo hanno definito ieri i parlamentari Cinque Stelle, è un dato costitutivo di questo governo. Tuttavia, realisticamente, siamo proprio sicuri che un altro esecutivo avrebbe, nelle condizioni date, impostato una strategia di radicale cambiamento? Ad esempio: mettere in discussione la nuova austerità del patto di Stabilità Ue firmato da Meloni a Bruxelles (12 miliardi di tagli). Oppure cambiare un’economia basata sui bassi salari, sulla competizione al ribasso ai danni dei lavoratori, sulla precarietà strutturale e non sull’innovazione e la ricerca.

C’È QUALCUNO che sostiene che il Pnrr ha adottato un approccio basato su bandi competitivi e ha penalizzato i territori con maggiori fabbisogni? Oltre alcuni economisti, nessuno. Meloni non ha intenzione, né può, cambiare alcunché. I modi, e le idee, di chi auspica un’alternativa restano da verificare.

* Fonte/autore: Roberto Ciccarelli, il manifesto



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