A Israele viene sempre assicurata l’impunità e la licenza di uccidere

A Israele viene sempre assicurata l’impunità e la licenza di uccidere

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Attacco all’Iran. L’escalation è il cuore della politica di Netanyahu, ma qualunque sia il governo, è lo Stato che, quali che siano le sue azioni, è sempre preventivamente assolto e sostenuto dai suoi alleati

Perdendo una guerra i regimi autoritari (soprattutto le giunte militari) perdono facilmente anche sé stessi. Nella seconda metà del Novecento è accaduto ai colonnelli greci con la guerra di Cipro.

Poi alla giunta argentina con quella delle Falkland, al regime portoghese di Salazar con le estenuate guerre coloniali africane, a Saddam Hussein con i conflitti scatenati dall’invasione del Kuwait. Ovviamente non è una legge scientifica e non sempre è chiaro chi abbia vinto o perso una guerra. Sono casi molto differenti tra loro: dallo scarso radicamento delle giunte putschiste, al pluriennale logoramento di guerre insostenibili, fino alla megalomania più aggressiva e sconsiderata del regime iracheno.

DA QUELLE VICENDE non è dunque lecito trarre indicazioni su ciò che sta accadendo oggi in Medio Oriente e meno che meno concludere che una sconfitta militare dell’Iran (ma di quali proporzioni?) comporterebbe necessariamente la dissoluzione del regime degli ayatollah. Trump vaneggia di una “resa incondizionata” di Teheran che in fondo è il paese aggredito. Ma che cosa significa? Forse una restaurazione della monarchia asservita agli interessi americani? Improbabile ormai che si tratti solo della rinuncia al programma nucleare. Per accorciare i tempi, Netanyahu ha messo in campo l’idea di eliminare la guida suprema, il vecchio e inscalfibile Ali Khamenei, la cui morte, sicuramente gradita a un gran numero di iraniani, determinerebbe una rapida conclusione della guerra. Ma perfino nella più gerarchica e rigida teocrazia del mondo il “supremo” è espressione di interessi, equilibri e rapporti di potere che non sono affatto destinati a scomparire con lui e che cercheranno in tutti i modi di mantenere le posizioni.

E, DEL RESTO, Israele ha appena assistito alla dimostrazione empirica di quanto poco la decapitazione della dirigenza di Hamas abbia condotto alla rapida resa delle milizie o a una qualche conclusione della carneficina di Gaza. A dimostrazione del fatto che la chirurgia è una cosa e la guerra tutt’altra. La selettività dei bersagli non è altro che sfacciata propaganda. E se, tra le armi impiegate contro il nemico vi è anche quella di terrorizzare la popolazione (vedi gli inviti a evacuare Teheran), allora da quest’ultima non ci si potrà attendere né simpatia né comprensione e i nemici dei nemici non diventeranno mai amici. Ma Israele non ha nessuna velleità di passare per liberatore o esportatore della democrazia (che al suo interno va piuttosto demolendo). Degli iraniani come dei palestinesi non gli importa assolutamente nulla. Agisce in nome della sua “sicurezza”, non molto diversamente da quanto sostiene di fare Putin rispetto all’allargamento della Nato verso Est.

Tenere a bada il programma nucleare e la potenza militare di un paese non troppo lontano che dichiara di volerti cancellare dalla faccia della terra è certamente cosa ragionevole. Ma le bombe sono l’unico modo per farlo? Mettendo in conto distruzioni e vittime civili che non condividono affatto la bellicosa retorica islamista? Non sono pochi, anche nello schieramento occidentale, a ritenere che esistessero alternative. L’argomento della “sicurezza” è peraltro tra i più insidiosi. Gioca su un confine mobile e su contenuti indefiniti. In suo nome, è cosa nota, si sono compiuti innumerevoli soprusi, svolte autoritarie, persecuzioni, deportazioni, invasione di territori altrui.

POICHÉ SI ACCAMPA una questione di sopravvivenza non si ammettono limiti né principi di moderazione. E si esclude qualsiasi assetto diverso da quello fondato sulla propria assoluta superiorità militare, da conseguire con qualsiasi mezzo. L’escalation è il cuore della politica dell’attuale governo israeliano che non risponde ad altro che al suo smisurato ego ideologico-militare.

ED È LA RAGIONE per cui non ascolta alcun invito alla moderazione né alcuna ammonizione sulla condotta criminale nei confronti della popolazione civile di Gaza, nemmeno quando timidamente proveniva da Washington. Non è affatto vero, come sentenzia il cancelliere Merz, che Israele fa il lavoro sporco per tutti. Netanyahu fa il lavoro sporco esclusivamente per sé stesso, del tutto indifferente alle conseguenze delle sue azioni sugli altri, amici o nemici che siano, sul destino della regione medio orientale e più in generale della pace nel mondo. È probabilmente l’unico stato al mondo ad essere sostenuto incondizionatamente dai suoi alleati anche quando questi, inascoltati, ne disapprovano le azioni e chiedono timidamente una qualche correzione di rotta.

QUALUNQUE SIA il suo governo, quali che siano le sue azioni, Israele è comunque sempre preventivamente assolto. Certo, da quel lavoro sporco, sul quale Israele non accetta comunque interferenze, c’è chi è pronto a trarre profitto: in primo luogo Donald Trump cui si offre l’occasione di ricondurre l’Iran nella sfera d’influenza americana. Per gli iraniani la rovina degli ayatollah, se mai dovesse realizzarsi, rappresenterebbe la fine di un lungo incubo, ma dovranno guardarsi dalle nuove forme di dittatura o di dipendenza che un governo statunitense fondato su arbitrio e prepotenza non mancherà di preparare per loro. Se Khamenei sparirà nel fumo di una bomba israeliana o americana questo non sarà né una vittoria, né una garanzia per quanti aspirano a un ritorno della democrazia in Iran.

* Fonte/autore: Marco Bascetta, il manifesto



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